8 marzo 2024

Lingua loro (46bis): "...a doppio cieco"

 

Apollonio non sa dire se a proposito delle procedure ormai di rigore per le pubblicazioni scientifiche (probabilmente no), ma a commentare il "doppio cieco" ci aveva già pensato Altan (à suivre). 


28 febbraio 2024

Lingua loro (46): "Peer Review a doppio cieco"

Il nesso Double-Blind Peer Review designa una pratica fattasi norma cogente, nel corso dell'ultimo cinquantennio. Essa prevede che chi procura un giudizio sopra uno scritto scientifico proposto per la pubblicazione o per la presentazione a un congresso ignori chi ne è l'autore e che, reciprocamente, l'autore ignori l'identità del revisore. Niente nomi propri, per carità: i nomi propri sono settici.
Qui si sospende il giudizio sopra la pratica. Che possa essere calamitosa è ipotesi che ha cominciato a serpeggiare non da ieri, negli ambienti scientifici. E la teoretica, cui essa pretende di essere al servizio, non tiene evidentemente troppo conto (anche se fa sembiante di farlo) di una correlata etica. Per tradizione, si ritiene per esempio che l'anonimato di una comunicazione non sia in effetti etico emblema di probità.
Come s'è detto, questo frustolo non si impegna tuttavia in temi tanto importanti: ogni temperie ha l'etica e la teoretica che merita e guai a toccargliele, se non si vuole buscarne in contraccambio botte da orbi (wow). 
Ci si limita così a considerare brevemente la parziale resa in italiano della designazione della pratica. La si legge nel titolo e la si incontra regolarmente, frequentando i circuiti nazionali della Scienza (con articolo determinativo e iniziale maiuscola, come ormai è d'obbligo) e della sua amministrazione (in questo documento, un esempio). 
Una resa siffatta ha certamente visto la luce in ambienti che all'inflessibile serietà degli studi, al grande valore scientifico e alla cura maniacale per la considerazione sociale, uniscono una naturale disposizione al comico e alla (auto)parodia, soprattutto quando ammiccano a una varietà linguistica di prestigio. A essi va la gratitudine per il buonumore che ne deriva.
Leggere o udire a doppio cieco (e non a doppio non vedente, si osservi sorridendo) invita inoltre a volgere per analogia il pensiero a un'opera d'arte che, di ciechi, ne mette in scena addirittura tre volte due, forse come illustrazione del modo con cui, proprio sulla sua soglia, si stava presentando l'evo moderno:

26 febbraio 2024

Linguistica candida (67): Sapienza della lingua

La facoltà umana che è uso chiamare lingua (e che, sempre per metonimia, sarebbe più allusivo della sua realtà chiamare orecchio) è un sistema incessantemente processuale e un processo costantemente sistematico, in ogni momento e in ogni suo aspetto. 
Si illude o millanta chi proclama di avere, già adesso o in prospettiva, il modo di farne l'oggetto di una descrizione compiuta, ancor peggio, di una comprensione integrale. 
Al contrario, è realistico e adeguato mettersi nella disposizione d'animo e nella condizione, se ci si riesce, di cogliere, per via di pertinenza, ciò che non varia nella varietà e ciò che varia nell'invarianza del quasi nulla della lingua di cui si ha la ventura di fare esperienza diretta o per via di studio. 
Ecco perché, senza una filologia, non questa o quella filologia, ma inderogabilmente una filologia, l'attenzione rivolta alla lingua diventa un'attività ben che vada spassosa, pur nelle sue complicazioni, ma vana, in termini di conoscenza. Parimenti vana, fuori di un gioco di erudizione, è tuttavia la medesima attenzione quando, invocando specularmente la storia come principio, essa finisce per fare da servile complemento a una filologia, riducendosi a una filologia d'accatto.
Esperienza di un quasi nulla, s'è detto. Di qualsiasi strumento di raccolta si disponga, i cosiddetti dati non saranno infatti mai più di un quasi nulla, se, anche al di là della loro qualità, il loro numero è messo a confronto con la quantità indefinita non solo di ciò che della lingua è patente, ma anche di ciò che non lo è e che è la stragrande maggioranza delle sue evenienze, convenzionalmente dette pensiero. 
Non è curioso in effetti ed è indiscutibile che la facoltà espressiva umana destini alla latenza la quasi totalità delle sue realizzazioni. A ben vedere, sarebbe infatti una troppo atroce condanna, per gli esseri umani, vivere nel rumore perenne che deriverebbe dalla manifestazione dell'indefinito numero dei loro pensieri. 
È d'altra parte ovvio che si parli di quantità indefinita, quando è in gioco la lingua. Si tratta, come s'è detto in esordio, di una facoltà umana e del relativo comportamento. Evitando in proposito di montarsi la testa, è dunque opportuno, oltre che sobrio ed elegante, lasciare la qualificazione di infinito eventualmente a chi o a quanto ne fosse adeguatamente descritto. Di una cosa si può essere sufficientemente certi: infinito non è niente di ciò che è al tempo stesso umano, lingua inclusa, in ogni suo aspetto.
In funzione di un'indefinita finitezza e del correlato quasi nulla dell'esperienza che se ne può fare, cogliere quanto non varia nella varietà e quanto varia nell'invarianza è in effetti ciò che, per naturale disposizione e sensibilità, fa con la lingua ogni essere umano. Lo fa con accanita dedizione nei primi anni della sua vita e, via via con più scarsa capacità e minore interesse, nel prosieguo, ma caso mai avendone qui e là barlumi di consapevolezza.
Scienza o, forse meglio, sapienza della facoltà espressiva umana convenzionalmente detta lingua è provare a conservare, nei suoi confronti, disposizione, sensibilità e dedizione infantili, con l'obiettivo di rendere meno effimera e precaria la luce che sopra essa getta, come può, una consapevole maturità. 

15 febbraio 2024

Buoni e cattivi

A parziale fondamento intellettuale, e si vorrebbe dire anche morale, di una civiltà in cui si pretende ancora d'essere iscritti (chissà con  quanta ragione, c'è da chiedersi), sta l'Iliade. 
Non è rappresentazione poetica di stati umani e sovra-umani di concordia, è appena il caso di ricordare. Forse vale però la pena di osservare come il dissidio messo in scena dal poema non oppone buoni e cattivi. E ciò vale tanto per gli umani, per i quali la contesa è ovviamente mortale, quanto per i sovra-umani, per i quali essa non lo è. 
Se il poema aspirava a suscitare stati d'animo in chi un dì lontano lo ascoltava, in chi poi lo ha letto e in chi ancora lo legge, non ne fomenta nessuno che si appoggi basilarmente sopra la distinzione tra buoni e cattivi. Rabbia, pietà, orrore, ammirazione, sdegno, commiserazione, ribrezzo, scherno: in linea di principio, erga omnes. E, con i medesimi bersagli, uno per uno, i sentimenti conversi.
Immaturità di un pensiero e di un'epoca che, certamente per un errore di prospettiva, vengono considerati aurorali e, a ben vedere, erano invece pienamente e luminosamente diurni? 
Decrepito tramonto di una rimbambita temperie, piuttosto, in cui, non da ieri, chi ha pretese intellettuali emette giudizi e divide il mondo in buoni e cattivi.

9 febbraio 2024

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (37): Il quid e il come




Sciogliere un inconoscibile quid nell'umile prassi di un come, senza lasciarne residui, è il superbo orizzonte dell'esperienza umana.  

31 gennaio 2024

Intolleranze (14): "Sold out", "Reading"


Si esprime così, in una rete sociale, la casa editrice che ebbe in Leonardo Sciascia il suo mentore. Quando "uno voli fari triatro" (avrebbe scritto la più celebrata delle sue firme nel suo idioletto letterario), uscirsene con un tutto esaurito sarebbe da zotici. Scrivere lettura ancora peggio: non si tratterebbe appunto di un "evento".
Nell'ambiente dei colti e letterati e delle letterate e colte, si procede al proposito in compatta falange: è tutto un sold out e tutto un reading. Né c'è da illudersi che qualcuno, per il rispetto che gli si dovrebbe, possa uscirne indenne. 
Una prova? Assoggettato a un reading anche un dolente e irridente fustigatore di cliché e di stupidità espressive:


Si potrebbe commentare che, a differenza dei vivi volentieri dediti a simili pratiche, i morti non hanno nessuno che li difenda, come è stato tristemente scritto (qui non si sa dire da chi). Ma lo spirito di questo diario è sorridente. E fin quando c'è qualcuno che sorride, si può morire contenti. 

29 gennaio 2024

Lingua loro (45): Ancora su "allooora..."

Un frustolo fortunato, il precedente. Ha procurato ad Apollonio, mediatrice la casella postale del suo alter ego, il conforto di lettori e lettrici di norma acquattati e acquattate dietro il paio che qui invece di tanto in tanto si manifesta. 
Il fenomeno che vi si espone ha certamente fattispecie più varie della singolare e nuova (ma, forse, solo nella forma del suo attuale dilagare) che si è prestata alla estemporanea segnalazione: ne sono giunte numerose testimonianze. 
Insieme con esse, è anche giunta un'integrazione autorevole e gustosa. Autorevole perché viene da Paolo D'Achille. Gustosa perché consente ad Apollonio di suggerire una correlazione inattesa e, a suo parere, rivelatrice.
Scrive D'Achille all'alter ego di Apollonio (menzione e citazione sono state graziosamente autorizzate): "[Allora] è molto frequente come segnale di presa di possesso [della parola], ma non è solo dei professori. Ho visto e sentito che lo usa spessissimo Lilli Gruber a 8 e mezzo, per riprendere la parola, e spesso per mostrarsi in disaccordo con chi sta parlando o per interrompere eventuali sovrapposizioni di interventi". Per chi si occupa criticamente di espressione e di comunicazione, un'osservazione siffatta è preziosa. 
Apollonio assiste solo molto occasionalmente al popolare programma televisivo di approfondimento giornalistico. Quanto basta però a sospettare che gli "allooora..." che D'Achille segnala come frequenti sulle labbra della anchorwoman corroborino e non indeboliscano l'ipotesi di una caratterizzazione professorale del vezzo. Sono infatti veri e propri sintomi dell'attitudine fondamentalmente didattica del programma e della sua conduttrice. 
Ne viene insomma non si dice spiegata, ma perlomeno illustrata l'impressione che in 8 e mezzo si pratichi un giornalismo da maestrinə (la locuzione tradizionale, nel caso specifico appropriata quanto al genere, potrebbe suonare a chi legge come non corretta politicamente). 
Numeri e successo dicono tuttavia che, al di là del genere grammaticale, un simile modo di comunicare piace a molti e a molte. Sarà per la nostalgia degli anni belli in cui, sotto uno sguardo giudicatore e severo, costoro scaldavano i banchi.

26 gennaio 2024

Lingua loro (44): "Allooora..."

C'è un costante, quasi ossessivo comparire di un avverbio tra le osservazioni procurate all'alter ego di Apollonio dalla frequentazione di studenti e studentesse di università, negli estremi anni italiani del suo servizio
Sollecitati e sollecitate a prendere la parola, nella situazione comunicativa di un contesto didattico d'una qualche formalità e quindi in quella ovvia di una prova di esame, in apertura, sulle loro labbra compare invariabilmente un "allooora...". Talvolta segue, talaltra non segue quanto chi proferisce l'avverbio è richiesto o richiesta di dire. In questo secondo caso, l'"allooora..." incipitario resta sospeso ed è la sola cosa che capita di ascoltare da quella bocca (spesso, va detto, grazie al Cielo: tra il silenzio e la parola, non di rado il silenzio è ciò che ferisce di meno). 
Bronisław Malinowski e, sulla sua scorta, Roman Jakobson, che ne formalizzò l'intuizione nel quadro di una teoria degli eventi comunicativi, individuarono in fenomeni siffatti l'emergere della funzione fàtica. Nel caso specifico, la certificazione della presa di possesso e dell'apertura del canale sul quale, procedendo, ci si prepara a dare uno sviluppo al contatto e al rapporto comunicativo, fornendo per esempio le informazioni richieste. 
Fin qui, pertanto, nulla di sorprendente. La vita linguistica di ogni giorno pullula di espressioni che valgono 'sono qui e sono disponibile e pronto a parlare con te' o 'aspetta un po', tieni aperte orecchie e attenzione, quello che ho da dirti arriva a momenti' o ancora altro del genere. 
Ma, a parte un'estensione nell'uso dell'avverbio allora che, se non ci si sbaglia, i lessici non hanno ancora opportunamente registrato (estensione sui modi della quale forse qualcosa ci sarebbe da dire dalla prospettiva di una diacronia grammaticale), l'osservazione, perlomeno come essa si è presentata ad Apollonio e al suo alter ego, sembra disporre di un curioso e correlato aspetto sociolinguistico. 
Sono in apparenza testimoni dell'uso in questione parlanti di una classe d'età che un dì si sarebbe detta giovanile e adesso più opportunamente tardo-adolescenziale, se non affatto adolescenziale e che un dì si sarebbe detta eventualmente semi-colta e oggi non si saprebbe più come definire, respingendo anche solo il sospetto che drammaticamente essa sia da qualificare come incolta. 
Costoro se ne stanno inoltre facendo testimoni in un registro a loro giudizio tutt'altro che informale, come è quello di un esame universitario. È più che ragionevole l'ipotesi che, come si diceva un tempo, non sia farina del loro sacco e che in realtà essi stiamo imitando un comportamento percepito come appropriato e prestigioso.
Apollonio e il suo alter ego si sono così messi a un più largo ascolto del contesto in cui hanno registrato il fenomeno: la scuola. Oggi, la scuola (l'accademia ne è una parte) è in effetti colma di chiacchiere. Forse lo è stata sempre, solo che da qualche decennio, l'eccesso si è reso più evidente. C'è da credere siano diventate meno alte le mura entro le quali la chiacchiera si produce: essa tracima più facilmente e allaga così ogni spazio (materiale e morale).
Ebbene, la fonte degli "allooora..." incipitari studenteschi viene pienamente alla luce, se si ascolta con attenzione e con specifica intenzione chi, nella scuola e soprattutto nell'attività didattica, prende la parola. Viene alla luce, se ci si mette all'ascolto dei e delle docenti, che, in tale contesto comunicativo, sono i e le titolari autorizzati/e, effettivi/e e permanenti della parola, sono coloro che non hanno bisogno di qualcuno che gliela dia, la parola, e che invece, quando è il caso, la danno. Un professore, una professoressa comincia a parlare? Due volte su tre, la sua prima parola è "allooora...".
Con il suo stucchevole sapore semi-colto, il vezzo viene da lì. Ed è un paradossale successo didattico. Sono professori e professoresse che, almeno in questo, sono infatti riusciti a insegnare qualcosa ai loro e alle loro discenti: hanno insegnato che, in principio, sì, c'è la parola, ma che questa parola è "allooora...".
Ai due lettori di Apollonio parrà inverosimile il risultato di questa minuscola ricerca sociolinguistica, condotta, lo si ammette, molto alla buona e insieme con il suo alter ego: fantasie di due vecchi rimbambiti, penseranno. Si sbagliano. 
La gente che lavora in pubblicità è gente sveglia e seria, gente che con la comunicazione ci campa e campa la famiglia, che alla comunicazione si avvicina con competenza e con strumenti atti a misurare il peso di ogni parola, di ogni espressione. Gente che sa bene, meglio dei lessicografi e dei grammatici che vanno per la maggiore, chi dice, donde viene, cosa vale e chi qualifica "allooora...". Ecco appunto cosa, a definire tipicamente una docente, le mette in bocca come prima parola una pubblicità:


   

21 gennaio 2024

A frusto a frusto (136)


Sarebbe bello (utile, non si sa, ma qui poco importa) se gli esseri umani dedicassero perlomeno la metà del tempo che mettono per cambiare il mondo e tutto quello che perdono per interpretarlo a modesti tentativi di procurarsi qualche provvisoria idea di come sia fatto. 

12 gennaio 2024

Le cose 'come sono' esistono nelle parole...

"The things 'as they are' exist in words; therefore words should be handled with care lest the picture, the image of truth abiding in facts, should become distorted - or blurred", scrive Joseph Conrad al suo corrispondente Hugh Clifford sul finire del 1899. 
Gli sta dicendo cosa pensa di un libro che Clifford gli ha mandato in lettura e il giudizio è amichevolmente positivo. Conrad "si permette di fargli solo un'osservazione": "Non lasci abbastanza spazio alla fantasia. Non intendo i fatti - i fatti non possono essere narrati troppo esplicitamente - alludo semplicemente all'espressione. È vero che un uomo che conosce tanto (senza tener conto della maniera in cui la sua conoscenza è stata acquisita) può ben risparmiarsi il disturbo di meditare sulle parole; solo che le parole, i gruppi di parole, le parole isolate, sono simboli di vita, posseggono nei loro suoni e nelle loro forme la capacità di presentare proprio ciò che tu desideri imporre alla visione mentale dei tuoi lettori [...] Puoi dire che queste sono considerazioni adatte ad un semplice artigiano, e puoi anche dire - ed è concepibile - che non ho altro a cui pensare. Comunque tutta la verità sta nella presentazione, e di conseguenza la forma dovrebbe essere curata nell'interesse della veracità. Questa è l'unica moralità dell'arte, a parte il soggetto" (i corsivi sono nel testo e l'italiano è di Alessandro Serpieri).
Questo diario inaugura il suo nuovo anno e Apollonio è felice di farlo con simili parole, in compagnia, spera, dei suoi due lettori. Aprire un libro a caso, nella propria biblioteca, procura il piacere sopraffino di trovare, dopo anni, dimenticate sottolineature. Anzitutto, esse ricordano ad Apollonio come quelli che crede suoi pensieri, per fortuna, non sono suoi e, passati di mano in mano, molto meglio detti, chissà da qual fondo di antichissima, si direbbe, primordiale consapevolezza essi vengono. Vale insomma la pena di rompere il silenzio, per farli ancora echeggiare, anche sommessamente.
Dietro il silenzio, ammette, c'è di tanto in tanto qualche sconforto. Meglio, c'è un'incidenza talvolta acuta, nella sua faccia depressiva, di quel sentimento di inanità che, di norma, al contrario gli fa euforicamente da corroborante garanzia dell'accettabile grado della sua libertà. 
Non servire a nulla e a nessuno aiuta a non servire nessuno e nulla.
 

20 dicembre 2023

Bolle d'alea (35): Genette

"Mort. J'ai longtemps hésité entre mourir très jeune, comme Mozart, ou très vieux, comme Hugo. Je n'ai plus beaucoup le choix, mais je m'avise (à temps?) de cette recette complexe, préconisée par je ne sais quel sage oriental (peut-être Bernard Shaw): mourir jeune, mais le plus tard possible", scrisse sornione Gérard Genette settantanovenne nel suo Codicille.
È la stagione degli auguri ed è la diciannovesima volta per questo diario. Apollonio condivide lo spirito e ammira la lettera delle parole di Genette. E trova in esse quanto augura a se stesso, da vecchio bambino impenitente della vita. Ma la sortita sta qui a disposizione di chi legge perché se ne serva allo stesso modo o come vuole.
In una temperie sentimentalmente liquida come la presente, in cui, per via di sommersione, non si sa se all'asfissia del pensiero i buoni sentimenti contribuiscano più dei cattivi, anche l'allegra ironia di un augurio riflessivo e tutt'altro che paradossale può fungere per qualche minuto da respiratore. 

[In traduzione estemporanea: "Morte. Ho esitato a lungo tra il morire molto giovane, come Mozart, o molto vecchio, come Hugo. Non ho più molta scelta, ma mi accorgo (per tempo?) di questa ricetta complessa, consigliata da non so qual saggio orientale (forse Bernard Shaw): morire giovane, ma il più tardi possibile".]

2 dicembre 2023

Linguistica al volo (2): Da "perché" a "pérche"


In questa canzonetta (dai contenuti manifestamente edipici: i due lettori di Apollonio avranno avuto la pazienza di ascoltarla), perché diventa pérche. Da giambo a trocheo, verrebbe fatto di dire. Vera e propria σφραγίς della giovanissima artista, che, con ratio musicale, usa giocare con le frammentazioni delle parole e con gli spostamenti di accento. Non è la sola; fanno lo stesso anche altri e altre cantanti della medesima generazione, non sempre con esiti artisticamente commendevoli.
Ma, ci si intenda, con pieno diritto. Sono manifestazioni del "legame musaico": nesso e concetto sono danteschi (stanno nel Convivio: I vii 14) e anticipano grosso modo di sette secoli la nozione di funzione poetica, di cui si fa opportuno credito a Roman Jakobson. 
"Legame musaico": tra i dotti, se il valore del sostantivo è pacifico, quello dell'attributo è stato oggetto di dibattito. Nel Convivio, vale semplicemente 'poetico' o più specificamente 'musicale'? Questione di non poco momento, nella prospettiva d'una filologia dantesca, ma sulla quale una linguistica da strapazzo può sorvolare e non solo perché l'occasione per alludervi in questo frustolo a qualcuno sarà parsa ignobile.  

28 novembre 2023

Caratteri (22)




Guardarsi semplicemente in faccia è rischio che non può correre: si imbattesse in uno specchio, ha sempre pronto un bel quadrato per oscurarlo.

27 novembre 2023

Bazzecole (1): Pesci al "Sole", una domenica dello scorso inverno

Sul settimanale culturale del noto quotidiano economico, "Le avventure di un merluzzo" recitava parecchi mesi fa il titolo di un articolo che non poteva non attirare l'attenzione di Apollonio. Almeno in parte, quell'articolo parlava infatti di lui. 
"L'uomo è ciò che mangia": così fu scritto con provocatoria autorevolezza or sono quasi due secoli. E sono stati da sempre presenti nell'alimentazione di Apollonio (e nei commerci preliminari che l'alimentazione comporta) lo stoccafisso (u piscistoccu, nella saporita memoria di una Messina tanto anelata durante l'infanzia e l'adolescenza), il baccalà e i naselli mediterranei che in Sicilia passano sotto la designazione di mirruzzi, ma che, appunto, non sono merluzzi, come li denomina il relativo italiano regionale.
A illustrare vistosamente il pezzo e la pagina, cosa ci stava allora a fare quel mucchietto di sugherelli o suri (in Sicilia, con varianti locali, sauri)? Pesce azzurro che coi merluzzi (o coi naselli, loro parenti) condivide solo l'ovvio iperonimo e, con altrettanta ovvietà, il fatto d'essere commestibile, ma in modo diversamente gradevole (donde un differente pregio).
Insomma, una sciatteria redazionale che ad Apollonio parve e ancora pare indice di un degrado già segnalato in questo diario. Indice non meno degno di nota, dal punto di vista culturale, di quello che attesterebbe, si ponga, la presenza di un ritratto di Ugo Foscolo a illustrare uno scritto che avesse a tema Alessandro Manzoni.
Che Apollonio sappia, in proposito, nei fascicoli seguenti di quel settimanale non sono comparse rettifiche. Evidentemente, per chi lo sfoglia e per chi lo cura (e letteralmente non ha saputo che pesce pigliare), merluzzo o suro, che differenza fa? 
Di cultura, di qualsivoglia cultura, non si conosce tuttavia definizione migliore di quella che la identifica con la capacità di discernere, di fare di un àmbito che agli ignari si presenta come indistinto e confuso (liquido, si direbbe oggi, e non solo a proposito di pesci) un sistema di elementi che trovano nella discretezza la loro identità. 

5 novembre 2023

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (36): Descrizione vs. giudizio


Non c'è descrizione senza punto di vista. Capita che, a partire da un punto di vista inusuale, una descrizione metta in luce aspetti fin lì non considerati di ciò che descrive. C'è chi la prende allora per un giudizio, per via di quella pigrizia intellettuale che fa ritenere i punti di vista corrivi gli unici possibili o i soli consentiti. Qualsiasi valore si annetta agli aspetti messi in luce dalla nuova prospettiva, la confusione tra descrizione e giudizio va invece evitata. Se è una descrizione e dichiara il proprio punto di vista, non è un giudizio, tanto meno un biasimo o una lode. Piaccia o non piaccia, è una descrizione.

26 ottobre 2023

Squarciare, celebrando: Italo Calvino, IOO

Presso un prestigioso ateneo romano, è stato ed è all'opera un Laboratorio Calvino fecondo di iniziative, in questo anno centenario dalla nascita dello scrittore. 
Nell'epoca della comunicazione, nemmeno la Sagra della zucchina bollita di Pratofiorito può fare a meno di costituirsi come brand. E non c'è brand che possa rinunciare a una "identità visiva": tutta l'attività di comunicazione ne va infatti contraddistinta, per essere riconoscibile, per esserne appunto marchiata. 
Il menzionato Laboratorio ha così opportunamente curato di avere un'identità visiva e l'ha commissionata a un reputato studio professionale. Lo dichiarano i materiali prodotti: si tratta di uno studio che pare abbia nel lettering la sua specializzazione.
Nei materiali in questione, l'elemento qualificante dell'identità visiva del committente è dunque il nome dello scrittore cui sono consacrate le celebrazioni. Esso è posto sempre in modo da risultare saliente. Lo fa nella foggia qui riprodotta alla buona e come si può (anche per tema che farlo diversamente non si possa, senza esserne autorizzati), in modo bastevole tuttavia al presente scopo: 

italocalvino

Chi volesse verificare trova qui o qui le pezze di appoggio, in originale.
C'è in tale foggia un lampante e ricercato contrasto tra marcatezza e non-marcatezza. Il marcato è in rosso; il non-marcato non lo è. Attenzione: diversamente da quanto si è qui riusciti a riprodurre, nell'elaborazione grafica originale il punto sopra la prima i non è in rosso e il dettaglio, minuscolo, non va trascurato. Ma si proceda. Il marcato occupa le posizioni iniziali e finali e la cesura tra nome di battesimo e nome di famiglia, quindi una posizione finale secondaria; il non-marcato occupa il resto. Il marcato è fatto solo di lettere di elementi vocalici; il non-marcato di quelle tanto di elementi vocalici, quanto di elementi consonantici. Una serie di opposizioni che, per via di salienza, fanno appunto in modo che da italocalvino emerga, come cifra, un 100. È la trovata. Accanto, al di là o al di sotto del ricercato 100, occhieggia tuttavia un ulteriore signe
Come per la cifra 100, si badi bene, la sequenza italocalvino non ha nulla che giustifichi specificamente che vi si legga altro, ma a marcare le lettere di certe vocali e non di altre o delle consonanti ne emerge anche la sequenza di un pronome di prima persona proferito in modo insistito e perentorio, come capita, per esempio, quando se ne fa una rivendicazione: ioo. Un pronome di prima persona: "il più lurido di tutti i pronomi", nelle parole di Carlo Emilio Gadda. 
È difficile immaginare che a tale exploit (etimologicamente, 'esplicito') sia mancata, nascosta dalla banalità del centenario, una Meinung, un'intenzione di significare, per dirla da una prospettiva fenomenologica, qui molto opportuna. Ciò non significa che, per precauzione analitica, ci si possa dire certi che a tale Meinung abbia corrisposto una consapevolezza. Che cioè tanto nel reputato studio che ha realizzato la foggia in questione, tanto nel think tank committente si sapesse da un lato cosa si stava facendo, dall'altro cosa si stava acquistando come identità visiva.
Sarebbe però divertente conoscere il pensiero del redivivo Calvino sopra chi trae visivamente dal suo nome una cifra (stilistica?) in cui occhieggia il chiaro vestigio di quel pronome di prima persona di cui, in vita, disse più volte di avere anche lui come scrittore (come persona, non si sa) una qualche ripugnanza. Un pronome e una funzione di cui affermò talvolta fosse il caso (o l'obbligo) di abdicare senza titubanze o remore, nel lavoro letterario.
Ma forse si rivela proprio in questo minuscolo dettaglio la ratio complessiva, se non di tutte, di molte operazioni messe in moto con l'anno centenario che si sta vivendo. E ciò che qui si è osservato è appunto un sintomo, oltre che un segno.
Se pure in maniera diversa da Pier Paolo Pasolini e da Leonardo Sciascia, anche Italo Calvino, con la sua straniante familiarità, è stato ed è ancora una figura perturbante, per chi prova a intenderlo. 
La memoria dello scrittore provoca probabilmente sentimenti contrastanti nel profondo di coloro che oggi impersonano la cultura nazionale nella sua ufficialità. O che aspirano e si candidano a farlo, grazie alla ribalta istituzionale offerta dalle cerimonie della sua imbalsamazione. 
Un contesto insomma favorevole a quella perdita di controllo dell'espressione che, per via di un'ambiguità nella rielaborazione grafica del suo stesso nome, apre così una sorta di squarcio tra le bende della mummia del celebrato. 

12 ottobre 2023

Ancora su "io Capitano": marginale chiosa grammaticale

Il caso è minuscolo (e inoffensivo) ma capita appunto in questi giorni di leggere in rete uno scritto sul film di Garrone che, in un passaggio, si esprime così: "È questo l'intento da cui muove Io, capitano, il film di Matteo Garrone". E in modo simile si vede evocato il titolo qui e là, non solo in rete.
L'opera ha per titolo io Capitano, senza virgola. Caso mai si nutrissero dubbi, lo testimonia l'immagine che accompagna questo frustolo. E se le risorse grafiche messe a disposizione da questa piattaforma non consentono, riproducendolo, l'uso contrastivo di maiuscoletto e maiuscolo, tollererà chi legge che qui si faccia ricorso al contrasto, non troppo dissimile, tra minuscolo e maiuscolo. 
La questione è del resto ben lungi dall'essere meramente grafica, dal momento che le scelte grafiche della locandina sono effetto di una trasduzione, per dirlo con una metafora, di valori sintattici.
Il rapporto tra il pronome di prima persona (così importante, come si è detto nel frustolo precedente, per intendere la ratio narrativa picaresca del film) e il nome che l'accompagna è infatti quello che passa tra soggetto e predicato nominale. 
In altre parole, se il costrutto fosse completo di verbo e il nome corredato da un articolo, invece di presentarsi come una secca frase nominale (a rappresentare la competenza elementare che il protagonista ha dell'italiano), il verbo sarebbe una copula e l'insieme suonerebbe come "io [sono il] Capitano". Proprio ciò che urla Seydou sul finire del film, rivendicando la sua paradossale missione di "scafista", cioè di soggetto dell'evento finale, se non principale della sua avventura, vista nel suo sviluppo narrativo.
"Io, capitano", con la virgola, varrebbe altro: "capitano" non sarebbe predicato, ma apposizione (per dirlo con la terminologia grammaticale tradizionale). In termini funzionali, sarebbe insomma una sorta di attributo di un Io maiuscolo non solo nella resa grafica, come lasciano intendere coloro che citano il titolo scorrettamente. Insomma, una prospettiva statica e non processuale.
Le bon Dieu (o, se si preferisce l'altra versione, le Diable) est dans le détail. E Apollonio può dare così prova ai suoi due lettori, eventualmente preoccupati di un'improbabile deriva verso la serietà di questo vano diario, che, al Cielo piacendo, il loro vecchio sodale non è cambiato e continua imperterrito a occuparsi di virgole.  
 

7 ottobre 2023

Spettatore pagante (3): "io Capitano" di Matteo Garrone

Si arriva pian piano, in sala, a capire perché suoni io Capitano il titolo del più recente film di Matteo Garrone: un bel film. 
Pian piano e solo in conclusione si giunge a intenderne l'appropriatezza come chiave di lettura della pellicola. Un titolo ben fatto serve anche a questo e io Capitano è un buon titolo. Per argomentarlo, conviene però procedere con ordine.
La pellicola mette sullo schermo le avventure per niente spassose di Seydou, come protagonista, e di suo cugino Moussa, come spalla. Sono due teen-agers wolof, per lingua e cultura, e senegalesi, per nazionalità, quindi anche francofoni per via di colonizzazione. 
Seydou e Moussa decidono di mettersi in viaggio verso l'Europa. Al loro progetto si oppone, ragionevole e sentimentale, la madre di Seydou: la terra è madre; la madre è l'Africa. Una madre che balla ancora bene ai forsennati ritmi di una festa, ammette il figlio, mentre le svela il suo progetto, prendendosene inutili e patetici rimbrotti: partire non è un po' morire, è morire tout court e, nel caso specifico, spesso non per figura, gli dice la donna.
Spinge però i ragazzi a partire un sogno altrettanto sentimentale e appunto, per opposizione, irragionevole. Senza gli esiti della propria irragionevolezza, un essere umano avrebbe poco da narrare. L'Africa alberga poi tanti ragazzi. Addirittura ragazzi che coltivano sogni. Il sogno di Moussa e di Seydou è in realtà poca cosa e, come è regola nella liquidità globale, sta per intero nel regno dell'apparire. Saranno i bianchi a fermarli per strada, un giorno e in Europa, si dicono irragionevolmente i due adolescenti, per averne un autografo. Perché?
Nella povera condizione in cui vivono, compongono ingenue canzonette, sui ritmi e nei modi che detta la loro cultura. Sopra tale friabile sostegno, sognano i fasti della notorietà che giungono loro tramite uno smartphone, che parla le tante lingue del successo canterino, tra le quali non manca l'italiano.
Il sogno non è tuttavia privo di suggestioni: i modi e i ritmi delle composizioni di Seydou e Moussa, insieme con quelli di altre culture africane hanno infatti profondamente intriso, come si sa, la musica commerciale prima occidentale, poi globale. E, sia detto a margine, chissà se, quando canticchiano sotto la doccia o si agitano in discoteca, i tanti e le tante che oggi temono invasioni e spregiano gli ibridi sono consapevoli di essere già, loro medesimi e medesime, in un avanzato stato di ibridazione. Tale che si potrebbe persino adattare al caso curioso odierno, a mo' di rivelatore paradosso, l'un dì famosa sentenza di Orazio. Perlomeno quanto all'espressione musicale (e non è poco), Africa capta, ferum victorem cepit (e mai attributo fu più appropriato, se per ferum si intende, come si può, 'brutale'. 'feroce').
I due ragazzi partono, dunque, e si avviano verso una realtà che, intervenendo spietata, ha i caratteri di un autentico inferno. Il cinema ha però la diabolica capacità di riscattare l'inferno con la bellezza delle immagini. E c'è appunto chi, preso dalla mera indignazione morale che la vicenda narrata suscita nei e nelle superficiali, ha visto in ciò un tratto di condannabile estetismo cinematografico. Di bellezza tuttavia non ce ne sarà mai troppa.
io Capitano non indugia mai d'altra parte sulla violenza, come realisticamente avrebbe potuto, e non toglie ai cattivi, che nel film non mancano, l'impronta di una piena appartenenza al genere umano: spregevoli, si badi bene, ma esseri umani, al pari delle vittime. Tutti terrestri. E tutti sporchi, impastati di quella polvere, di quel fango, di quella sabbia, di quell'ocra e di quel giallo che, a partire dalle prime scene, sono il tratto formale del film, quanto a colore. 
Non del film per intero, tuttavia. Ocra e giallo scompaiono appunto nell'ultimo quarto d'ora, per lasciare lo schermo al blu del mare. Lampante marca formale di una letterale catastrofe narrativa, del capovolgimento che porta il dramma verso il suo scioglimento, consumato sull'acqua e verso il cielo, con la terra a fare da semplice sfondo, ma come un'ombra: l'ombra di un sogno.
La pellicola ha poi un paio di parentesi fantastiche. Rimarchevoli. Potrebbero parere esornative o concessioni all'inclinazione fiabesca dell'ispirazione del regista. In altri suoi film, questa ha preso il sopravvento (a parere di Apollonio, con esiti discutibili). Qui sono invece finestre aperte sul sistema soggiacente del tessuto narrativo. 
Con le loro aperture, è la prospettiva interiore di Seydou a venire in primo piano. La fantasia gli consente di risolvere un conflitto lacerante: si trova costretto ad abbandonare, destinata a morte certa, un'anziana donna implorante che la marcia nel deserto ha fiaccato (la madre? Certo, per figura: da portare con sé come uno spirito privo di peso e volante). Ed è il sogno a permettergli di riemergere dall'esperienza delle torture subite per avere rifiutato di sottoporre sua madre e la sua famiglia al ricatto dei carcerieri. Non una telefonata con la richiesta di un riscatto, ma un angelo che vola a rassicurare nel reciproco sogno la donna, sorridente nel sonno. L'angelo porta con sé Seydou, dietro sua richiesta, ma il privilegio non giunge fino a concedergli di essere visto dalla madre o di parlarle, nell'occasione.
Ecco appunto. Ci si siede in sala e, sulle prime ma per lunga pezza, ci si figura di essere esposti a una narrazione in terza persona: Garrone che narra di Seydou e Moussa. Pian piano, ci si accorge però che la ratio del film è diversa. In realtà, regista e sceneggiatori si sono fatti mediatori artistici di un racconto in prima persona: Garrone ha fatto un film delle esperienze e delle relative parole di Seydou. Ciò cui si assiste, in rielaborazione cinematografica, non è il resoconto del viaggio di Seydou procurato da un osservatore esterno, ma il racconto che Seydou fa della sua avventura, materiale e morale. 
Quando si giunge a questa conclusione, diventa immediatamente chiaro che io Capitano ha l'impianto del romanzo picaresco: Seydou è il picaro nella temperie della modernità putrefatta. E, una volta che lo si è inteso, non si vuole dire tutti, ma molti pezzi del composto narrativo e cinematografico vanno al loro posto. Fanno sistema.
Prende anzitutto un valore specifico l'età del protagonista, un adolescente orfano del padre. Prende valore la presenza del cugino e compagno, perso nelle peripezie e finalmente ritrovato: un topos. Ha ragione l'insistenza nell'incipit e nel séguito sulla sprovveduta ingenuità di Seydou, via via sanata da una silenziosa e tutta interiore crescita di consapevolezza, nel contatto con un mondo feroce, violento e beffardo: c'è infatti chi ha parlato, in proposito, del modello del romanzo di formazione. 
Ma acquista un grande rilievo compositivo la leggerezza con cui il viaggio viene presentato, anche nei suoi momenti più crudi e violenti, da chi lo narra sapendo appunto di avercela fatta. E leggera, fin dalle sue origini, fu appunto la letteratura picaresca. 
Non si trascuri, in proposito, la presenza salvifica, quando la pellicola volge verso la conclusione, di una figura che, per il protagonista, surroga la paterna. Essa svanisce nel momento in cui il picaro si prepara ad affrontare la sua prova decisiva. Prova, si badi bene, che Seydou non vorrebbe affrontare: vi si trova infine costretto. Gliela impone infatti un'ennesima e interessata angheria, cui deve piegarsi per salvare Moussa: gli toccherà farsi pilota della barca con la quale proverà a raggiungere la Sicilia, conducendovi una folla di disperati e disperate. E dunque non dal bene né dal male Seydou esce infine forte e consapevole, ma da un inestricabile miscuglio di bene e di male. È ciò che porta Seydou alla rivendicazione finale di un'espressione in prima persona, al suggello della pellicola che, facendo anche da titolo, ne sanziona circolarmente la natura davanti allo spettatore. 
In faccia all'elicottero della Guardia costiera italiana finalmente giunto a intercettare i clandestini, "Io capitano, io capitano... tutti salvi... nessuno è morto" urla il picaro Seydou dalla torretta dello sgangherato natante con il quale, sedicenne che non sa nemmeno nuotare, quindi per mera fortuna, ha condotto attraverso il Canale di Sicilia quella ciurma di esseri umani: ciurma dolente, irrequieta e, soprattutto, fertile. 
Con la finale ingenuità della verità, il picaro Seydou confessa e rivendica insomma d'essere lui lo "scafista". Così oggi usa dire appunto gente che, beata lei, ha sempre chiaro davanti a sé il confine tra buoni e cattivi e non immagina che uno scafista possa non solo sentirsi Capitano ma essere anche "timorato", come del resto, per dirla finalmente con Jean-Paul Sartre, una sgualdrina può essere "respectueuse".

6 ottobre 2023

Linguistica al volo (1): Ai matti si dà sempre ragione

Per parafrasi, si dà immancabilmente ragione a chi si ritiene, la ragione, l'abbia persa. Raccomandato dalla voce popolare, il comportamento non mira certamente a fare sì che chi ha perso la ragione, visto che gliela si dà, ne ritorni in possesso.
L'osservazione, scherzosa e peregrina, fa da minuscolo esperimento per intendere come, combinandosi con dare o con perdere, ragione vada da una parte o dall'altra in funzione di la: dare ragione, perdere la ragione.
L'articolo determinativo (tale, per la terminologia grammaticale) non ha un significato, ma un valore. Esso sortisce dall'opposizione tra presenza e assenza, come a dire da un mero rapporto paradigmatico. Ed è il valore dell'articolo a dare all'insieme un senso, per dirla come piace a quei molti che forse, senza saperlo, intendono appunto una direzione.

20 settembre 2023

Spettatore pagante (2): "Coup de chance" di Woody Allen

Avviso: eviti di leggere questo frustolo chi, nella fruizione di qualsivoglia prodotto narrativo, si appassiona esclusivamente alla "storia" e dice di perdere interesse se capita sappia in anticipo "come finisce" (poveraccio o poveraccia, è il sommesso pensiero di Apollonio in proposito  e certamente non per la mancata lettura di questa sua modesta prosa).

"Colpo di fortuna" o, se si preferisce scendere di registro, "Botta di culo" sono quanto corrisponde al francese Coup de chance, che fa da titolo al più recente film di Woody Allen. Apollonio ha avuto l'occasione di vederlo al cinema in un'anteprima preceduta da un'intervista al regista nuovaiorchese in live streaming nazionale: un quarto d'ora pieno di stucchevoli banalità (duole dirlo).
Coup de chance è, come dichiara il titolo, un film sul tema della τύχη, sul ruolo della sorte nelle vicende personali e pubbliche degli esseri umani. Sul versante delle personali, il tema è caro ad Allen, come si sa, ed uno di quelli sui quali si sono esercitate sin dalle loro prime testimonianze e senza distinzioni riflessione e letteratura occidentali. 
La pellicola si rivolge senza più infingimenti a un pubblico europeo, come è ormai consueto nella produzione di Allen. Stavolta però forse più specificamente proprio al pubblico europeo continentale (se anche con il pubblico si può fare per analogia una distinzione tipicamente vigente per la filosofia). Allen e i suoi produttori sono infatti ben consapevoli che si tratta del solo pubblico cui indirizzarsi, sperando di averne un ritorno.
La pellicola narra una vicenda che si svolge ancora una volta in un'elegante Parigi (fatta di edifici di pregio, di gallerie d'arte e di giardini) e in un canonico château che signoreggia un dintorno naturale e boschivo, dove si pratica la caccia al cervo. 
Non basta, tuttavia. C'è appunto una novità, come ha sottolineato la campagna di lancio di Coup de chance. Il film è in francese. Non era mai avvenuto nei precedenti girati in Europa da Allen, tutti uniformemente sceneggiati e recitati nella lingua del regista. 
In funzione del target, per Coup de chance si tratta di una scelta di comunicazione pubblica efficace: "il primo film francese di Allen", ma anche, data l'età, "il suo cinquantesimo e l'ultimo che si propone di girare": un secco "il suo ultimo", sarebbe suonato iettatorio, come si intende. 
La trovata linguistica è inoltre sostenuta dal richiamo alla più volte dichiarata predilezione di Allen per il cinema europeo del passato. C'è però da chiedersi se, snobismo per snobismo, non sarebbe stato forse meglio glisser. Tanto più che, francese o inglese in superficie, i film di Allen si esprimono sempre in alleniano. Ma i tempi sono questi e non c'è scelta che si pretende di gusto superiore di cui non vada fatta esibizione, con irrimediabile riduzione del gusto all'ordinarietà, per eccesso di svelamento della sua venalità.
Non è d'altra parte necessario essere storici e filologi della produzione di Allen per rendersi presto conto, in sala, che Coup de chance condivide il suo tema fondamentale con Match Point, del 2005, e che quindi rimonta alla vena del regista la cui prima chiara epifania si ebbe con una sezione di Crimini e misfatti, del 1989: un Allen già maturo, pertanto.
Confrontato all'archetipo (se si può dire così), ma anche e soprattutto alla menzionata e valorosa riproposizione di Match Point, dal retrogusto shakespeariano (ci si ricordi della scena del sogno), Coup de chance mette sullo schermo tipi: bozzetti più che personaggi con contraddizioni e complessità. Si badi bene, la tendenza a una sorta di commedia dell'arte in Allen c'è sempre stata, come d'altra parte è naturale per un autore dalla vena satirica. Non si satireggia senza caricatura e non c'è caricatura che non sia tipizzazione. 
Per restare con massima pertinenza alla produzione alleniana di questo secolo, in Match Point dei tipi si vedeva però l'anima dolorosa, incarnati come si trovavano nella rappresentazione di personaggi che simulavano persone invischiate, nolenti o volenti, nell'intrico sempre irragionevole della vita.
Invece, il disegno personale e umano dei personaggi di Coup de chance è ridotto all'osso. E, a contrastare il sospetto che la vena di Allen nella costruzione delle figure delle sue commedie si sia rinsecchita (invecchiare è rinsecchirsi, andando verso il secco che non risparmia nessuno), c'è solo l'ipotesi benevola che il regista intenda così mostrare come sia inutile la ricerca di uno spessore o di un'anima nella rappresentazione dell'umanità: tutti e tutte secche e legnose marionette, mosse dalla sorte.
C'è poi un'altra differenza complessiva e d'impianto tra Match Point e Coup de chance: in ambedue, la τύχη ha una sua epifania in apertura. Ed è ovvio; tutto comincia accidentalmente, nelle vicende umane: nascere è un caso, morire una necessità, ha scritto da qualche parte l'alter ego di Apollonio senza pretesa di originalità. In ambedue le pellicole, la sorte ha anche e soprattutto un'epifania in chiusura, risolutiva. 
Nel film londinese, però, la fortuna premiava infine e crudamente il méchant. La pellicola produceva così un effetto di benefica frustrazione in spettatori e spettatrici con desiderio se non di un happy end, perlomeno di una riparazione al disgustoso guasto nell'ordine del mondo cui aveva assistito.
Al contrario, Coup de chance si conclude in modo consolatorio e il pubblico sorride. La τύχη punisce il cattivo, certo per la sua ὕβρις, la sua oltraggiosa tracotanza: più volte si sente dire al personaggio in questione che lui, alla fortuna, non crede: la fortuna ce la si costruisce, com'egli pensa in effetti di essersela costruita, commissionando a efficienti sicari un paio di omicidi. La sorte lo ferma, uccidendolo, sulla soglia di un terzo che si vede costretto stavolta a compiere personalmente. 
Per l'impresa, il malnato ha concepito come scenario una caccia al cervo nella già menzionata foresta. Sta qui appunto la comica trovata del film. In essa si riconosce finalmente il prezioso residuo dello scanzonato spirito di Woody Allen. Vi si riflettono però anche l'ordine e la necessità che qualsiasi narrazione ha da imporsi, pur proponendosi di dire dello spaventoso potere del caso nella vicenda umana. Come scrivere, fare film è disperata rivendicazione, anche solo per finzione, della possibile esistenza di un sistema.
Ebbene, in tale sistema il méchant non ha riflettuto come doveva sul fatto che che, tradito dalla moglie, l'animale indubitabilmente dotato di corna è lui medesimo, nell'occasione. E un cervo lo crederà appunto e con ragione un anonimo cacciatore che, vedendo un movimento tra i cespugli, non esiterà a farne il bersaglio del suo colpo mortale. 
Messo a morte dalla sorte, dunque, il cattivo. Come merita, dice Allen con un salutare sberleffo, non per i due assassini realizzati e per il terzo da realizzare. Nel superiore ordine narrativo, semplicemente perché irrimediabilmente cornuto.

10 settembre 2023

Spettatore pagante (1): "Oppenheimer" di Christopher Nolan

Sopra Oppenheimer di Christopher Nolan, Apollonio dubita oggi che il suo alter ego abbia voglia di esprimersi per iscritto. Ma il cinema di Nolan è una delle sue palestre preferite e poi lo conosce volubile e soggetto all'estro. Si sa che a determinare le voglie è appunto l'estro. 
Per il momento, l'alter ego sostiene che vedere Oppenheimer di Nolan solo una volta non basta, per dirne, ancora di più, per scriverne sensatamente. 
Ma ciò vale per ogni altro film del regista inglese, obietta Apollonio. Le sue pellicole vanno bene naturalmente anche per spettatrici e spettatori da "una botta e via": la maggioranza. Seducono al tempo stesso tuttavia anche e forse soprattutto la minoranza di quei perversi e di quelle perverse inclini a chiedersi come sarà la successiva e talvolta finiscono così per innamorarsi. Sarà segno di qualità artistica?
Forse. E non si può dire che Oppenheimer non dia segni della sua qualità. Ma Apollonio, spericolato, non si perita di dire che non si tratta dell'opera migliore di Nolan. E il chiasso che ne ha anticipato e accompagnato l'uscita nelle sale, ai suoi occhi, ha reso più manifesta la discrepanza. Prezzo da pagare a ineludibili esigenze commerciali. Emma Thomas e Syncopy hanno lavorato alla grande: una campagna con i fiocchi.
Nei commenti sul film (o perlomeno in quelli che Apollonio e il suo alter ego hanno accidentalmente intercettato, tra le miriadi) il soggetto, nelle sue faccette psico- e sociologiche, e il tema, con le sue imponenti conseguenze, hanno tuttavia fatto premio (per dirla come un assessore o come un mister) sullo specifico cinematografico. 
E non solo sullo specifico cinematografico (del quale, tanto Apollonio, quanto l'alter ego masticano pochissimo), ma anche, più in generale, sul narrativo. Invece, la costruzione narrativa, se non è il meglio (o il peggio) del film, è certo quanto è formalmente notevole. Tanto da indurre a chiedersi se a tale forma corrispondano valori funzionali, dice l'alter ego, e se tali valori funzionali tengano, rendano cioè sistematico il prodotto finito.
Apollonio lo sa bene e il suo alter ego ci ha anche speculato: Nolan ha un conto aperto con il tempo. Ma il cinema è ineluttabilmente lineare. Come dell'espressione linguistica osservò Ferdinand de Saussure. E Roman Jakobson fece finta di non capire, per preconcetta polemica con quel fantasma, commenta l'alter ego, tirando in ballo i suoi chiodi fissi. 
Lingua e cinema, continua, impongono un tempo anche a chi pare non volere concedere al tempo nessun privilegio, narrando, come Nolan non smette di fare. Mirabile, nella sua opera, fu in proposito la valorizzazione dell'aspetto, in Dunkirk: un breve capolavoro, formalmente semplice, funzionalmente complesso, che provocò invece poco rumore
Nel fluviale Oppenheimer, il tempo è invece frantumato, come l'atomo: per vano gioco? Si direbbe di no. Individuare con precisione il funzionamento di tale frantumazione nei suoi effetti narrativi è indispensabile, per una valutazione. 
L'alter ego ha ragione: a capire se ci si prende gusto, necessaria perlomeno un'altra botta...

22 agosto 2023

Linguistica da strapazzo (52): Ferdinand de Saussure, Roman Jakobson e Renato Carosone

In questa canzonetta di Renato Carosone c'è materiale per più di un'osservazione linguistica.
Di una linguistica modesta e da strapazzo, s'intende, che si occupa alla buona dell'espressione umana com'è, con gli strumenti messi a disposizione da Saussure e da Jakobson, per esempio. Non di quella importante e da scienziati che, visto che delle lingue umane ritiene di sapere tutto, pare sia già passata a trattare di lingue impossibili. O di quella da seri tecnici e ingegneri che, per considerare le reali, pretende si vada di corpora giganteschi.
In funzione poetica, allora, Carosone valorizza l'iterazione, variandola tanto sull'asse delle combinazioni, quanto su quello delle commutazioni. Cioè nei rapporti sintagmatici, come in quelli paradigmatici.
L'iterata variazione o la variata iterazione gli sono consentite dalla metafonesi. È questo un processo fonetico-fonologico (con eventuale fall out morfosintattico, com'è qui il caso) da cui è interessato, tra tante altre varietà, il napoletano, anche quando si fa letterario e canoro.
La vocale colpita dall'accento, se è media ([o] o [e]), mantiene o muta la sua altezza in funzione di quella atona della sillaba seguente. E se questa è alta ([u] o [i]), si innalza.
Nella lingua, cioè nell'umano, il passato è sempre presente nel presente e bisogna imparare a vederlo (diacronia e sincronia). E dunque, una volta introdottasi nel sistema, come è avvenuto nell'epoca ormai remota in cui, anche se atone, le vocali venivano tutte proferite distintamente, la metafonesi opera anche quando della vocale atona non rimane ormai che un uniforme vestigio: senza innalzamento, rossə, ma, con innalzamento, russə; senza innalzamento, essə, ma, con innalzamento, issə.
Il processo ha finito per procurare così forma rigorosa e lampante manifestazione all'opposizione di genere grammaticale, cruciale alla confezione della canzonetta e del suo tessuto semanticamente allusivo (significato e significante), come si vede o, meglio, si sente dalla voce di Carosone (langue e parole).
In anticipata e permanente barba, si direbbe da una prospettiva di politica linguistica, alle fantasiose e transeunti proposte che vorrebbero si credesse che, a ottundere certe differenze nell'espressione, basti la mutanda di uno scevà.

6 agosto 2023

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (35): Figure della vita pubblica

La vita pubblica ha, tra le sue manifestazioni macroscopiche, il potere di ingigantire figure che, fuori di essa e nell'eventuale considerazione privata, starebbero sotto la soglia dell'osservabile. E dalla vita pubblica, come si sa, perlomeno come osservatori e osservatrici, non si ha scampo. L'effetto allucinatorio non va tuttavia mai dimenticato, soprattutto perché capita spesso che in tali figure, anche fuori delle occasioni pubbliche, trovi pretesto il discorso e, addirittura, inciampi il pensiero, dove non guasta invece che ogni cosa sia precisamente dimensionata.

4 agosto 2023

Potere e silenzio

Si dice corrivamente che l'operare di chi ha potere e aspira a consolidarlo tragga beneficio dall'essere circondato dal silenzio. La faccenda merita tuttavia una riflessione. Da sempre. Tanto più in un'epoca infestata dalla comunicazione, come la corrente.
Il potente brama infatti un'approvazione e il silenzio può alimentare il sospetto che il consenso gli faccia difetto. Un sospetto che può sottilmente farsi pubblico.
Capita così che al silenzio, oggi soprattutto, il potente preferisca espressioni esplicite di dissenso, pronte d'altra parte a innescare i peana dei suoi compari e di chi, in un modo o nell'altro, lo puntella.
Ed è così che per chi conserva un po' di giudizio, davanti a uno spregiato potere, tacere radicalmente è una risorsa. Talvolta, l'unica risorsa per prendere sostanziale distanza dal potente, decretandone l'irrilevanza, cioè quanto il potere detesta massimamente. L'essere smascherato come irrilevante dal silenzio che lo circonda. Irrilevante come è spesso e oggi sempre più di ieri. "A lot of talk and a badge", si dirà insomma, per solo apparente paradosso.  
A ben vedere, "Parla!" è ciò che si ingiunge a chi subisce un interrogatorio, come oggi accade più spesso di quanto non si creda e con il supporto di argomenti che, diversi dagli antichi, si ritengono in ogni caso di gran peso. Non parlare è in tal caso un obbligo morale. E non parlare del potente, non unirsi ai cori di chi, biasimandolo o lodandolo, ne sostiene in sostanza il potere, è forse l'estrema opposizione.  

23 luglio 2023

Linguistica candida (66): Meccanizzare

Diversamente da quanto corrivamente credono non solo i profani e le profane, ma anche fior di specialisti e specialiste, la lingua non è fatta di parole (o, in modo più sofisticato, di parole e procedure, di lessico e di computazione), ma radicalmente e solo di procedure.
È una procedura, niente altro che una procedura, la fondamentale, inesausta, continua attività da cui sortisce qualcosa che significa (un 'quanto' significante) e qualcosa che ne è significato (un 'quanto' significato).
Nei solchi tracciati da miriadi di tradizioni culturali diverse, tale procedura non agisce una volta per tutte. Agisce tutte le volte che un essere umano accede alla sua capacità di parola, anche solo interiormente (come si fa, in realtà, nella stragrande maggioranza dei casi e non solo nell'ascolto degli altri). Agisce atto dopo atto, momento dopo momento (è quanto, della procedura, Ferdinand de Saussure chiamava parole), ma appunto in modo sistematico (è quanto il medesimo chiamava langue).
Che la lingua sia una 'energia', un continuo farsi e poco o per nulla una collezione di dati, di fatti da conservare e, caso mai, da ricombinare, apparve d'altra parte chiaro già a Wilhelm von Humboldt or sono due secoli, senza che gli sfuggisse naturalmente le strabilianti varietà e stratificazione storica dei relativi fenomeni.
Tale energia si esercita basicamente nei modi e nei termini indicati meno di cento anni dopo dal già menzionato Saussure con penetrante precisione. Ovviamente, non in tutta la loro vastissima gamma, non in tutti i loro innumerevoli dettagli. Solo per sommi capi, tanto grande e spaventoso gli parve quanto gli accadde di intuire.
Se infatti gli esseri umani esaurissero un giorno la conoscenza delle procedure della loro facoltà linguistica, avrebbero ipso facto esaurito la conoscenza di loro medesimi.
Per quanto si voglia essere ottimisti, è allora da ritenere molto improbabile che giunga a conseguire un risultato siffatto una mente umana, anche collettiva, come si presenta in effetti quella di una disciplina, ove questa disciplina fosse saggia e ben indirizzata, come oggi non è. 
Le parole che stanno certo sulle labbra, sotto le penne, nelle orecchie e sotto gli occhi di tutti e tutte non sono che alcuni degli esiti di tali procedure (si badi bene, solo alcuni: ci sono infatti esiti calcolabili e calcolati, privi di manifestazione). Sono quanto ne viene prodotto.
È ovvio che le parole per sé attirino l'attenzione di chi, restando sulla superficie, si ferma al prodotto e non solo non bada al modo della produzione, ma spesso non immagina nemmeno che esso esista, attribuendo ai prodotti lo statuto di enti: cose che esistono per se medesime.
Costui o costei ritiene che tutto stia lì, bell'e fatto, eventualmente solo variabile, caso mai, nelle forme di un gigantesco deposito in cui si va a prendere quanto serve, ficcandolo alla bisogna dove serve. 
È a un modello come questo che si ispirano i tentativi ingegneristici, molto fortunati oggi e di certo ancora più fortunati in futuro, di simulare la facoltà linguistica umana nella conformità dei suoi esiti, simulandone in realtà un'apparenza più che bastevole alla meccanica elementare degli scopi pratici e comunicativi che ci si prefigge. Scopi la cui taglia incoraggia a considerare spettacolari, celandone la reale pochezza.
A ben vedere, tali tentativi non si basano in effetti sopra fondamenti diversi da quelli della più vieta, millenaria tradizione filologico-grammaticale. Hanno mezzi classificatori enormemente più efficienti, ma hanno della lingua un'idea non diversa da quella che a un profano può avere fornito la più corriva formazione scolastica: ci sono delle parole e tutto sta nel metterle insieme di modo che a qualcuno paiano appropriate.
Ciò che è meccanizzabile, ciò che si sta meccanizzando, in altre parole, è il tendenziale o già realizzato conformismo di una sterminata gamma di pratiche comunicative e non la facoltà linguistica umana. 
Ma già altre volte, nella storia della civiltà in cui questo minuscolo diario cerca con modestia di prosperare, si sono imboccate strade che, invece di condurre verso una migliore e più ponderata comprensione degli esseri umani, sembrano portare verso usi smodati dei mezzi di cui si dispone, usi indotti da un'inconsapevole e irresponsabile volontà di potenza e di dominio. 
  

17 giugno 2023

Linguistica candida (65): Pretesti della linguistica




Non c'è genere, specie, modo, forma dell'espressione umana che non possa fare da pretesto a una riflessione linguistica, se da pretesto, a bene intendere, le fanno persino le lingue.

31 maggio 2023

Per l'ultima volta, in un'aula universitaria dalla parte della minoranza

Coloro che frequentano questo diario perdoneranno l'anziano Apollonio se, nell'occasione, prova a intrattenerli e a intrattenerle, sempre che lo vogliano, con una nota a suo modo personale. Promette che non la tirerà troppo per le lunghe.
Lo sanno: il suo alter ego bazzica da più di mezzo secolo per le aule universitarie. Da quarantotto anni, lo ha fatto anche e via via soprattutto dalla parte della minoranza.
Così egli definisce, con semplice tratto osservativo, la situazione di chi si dice insegni: modo di esprimersi più corrivo e oltremodo più impegnativo. Gente che abbia qualcosa da insegnare e che sappia farlo ce n'è stata, ce n'è e ce ne sarà sempre poca.
Minoranza vs. maggioranza è invece un semplice criterio di opposizione, realizzato sovente se non di norma come singolare vs. plurale. Ed è testimoniato ed evidente, concreto, tangibile già nel modulo costruttivo e di arredamento degli spazi deputati. 
Ci sono tante seggiole, disposte in più file, da una parte; ce n'è solo una, sovente inutilizzata, o ce ne sono poche, dall'altra, e disposte, caso mai, in una fila unica.
A ciò, prima che a ogni altra speculazione teoretica o morale, un osservatore marziano ancorerebbe un'onesta descrizione dei riti che si svolgono in quegli spazi. E, come si sa, sovente anche il più stupido marziano vede le cose della Terra più acutamente di come le veda il terrestre più sveglio. 
Ebbene, tornando alla vicenda dell'alter ego di Apollonio, il suo primo ingresso in un'aula universitaria nella collocazione di tendenziale singolarità e di certa minoranza appena descritta avvenne l'undici dicembre 1975, nella precaria veste che gli si addiceva. Lo testimonia irrefragabilmente il documento qui esposto. Senza il suo supporto, dichiara l'alter ego, non avrebbe potuto essere così preciso. Ma, disordinato, tiene una sorta di archivio.
In effetti, la memoria si sarebbe limitata a dirgli genericamente l'anno accademico e se è facile, per lui e per Apollonio, immaginare ancora oggi quanto fosse coinvolto dall'impegno quel non ancora ventitreenne e quanto l'incoscienza tipica dell'età l'abbia non paradossalmente soccorso, allora e nel séguito, può assicurare (ed è certo d'essere creduto) che non ci furono cerimonie nell'occasione, com'era ovvio. Niente ballo del debuttante, insomma.
L'undici dicembre 1975, entrò in aula, fece il suo lavoro e passati i quarantacinque minuti (questo era l'uso) andò via, salutando il centinaio di quasi coetanei e coetanee che se lo erano trovato davanti e che ebbero così ad assistere a ciò che per lui (solo per lui) fu un evento.
Non è successo nulla di diverso oggi, trentuno maggio 2023. L'alter ego di Apollonio è entrato in un'aula universitaria dalla parte della minoranza: per l'ultima volta. Niente cerimonie. Apollonio, solo estraneo, per dire così, presente al rito, c'era e può testimoniarlo: due dozzine di ventenni, da una parte, lui, dall'altra.
Del resto, ad assicurare all'alter ego, tempo fa e a Zurigo, prima un'entrata in scena comme il faut e, dopo venti anni di servizio, un'uscita appunto scenografica e che resterà per sempre cara al cuore fu il suo sincero datore di lavoro elvetico; una gloriosa istituzione cui nulla egli può rimproverare; tanto meno di mancare di garbo e dei correlati modi nei confronti di chi le reca il suo contributo (che nel suo caso specifico non si ardisce pensare sia stato recato ad aumentare quella gloria, piuttosto a non portarvi eccessivo nocumento).
La bella festa fu, ora lo si può dire, una tappa di avvicinamento al traguardo odierno, perché per l'autentica e definitiva ultima volta l'alter ego di Apollonio è entrato in aula dalla parte della minoranza oggi e a Palermo; lì dove, testimonia il documento, l'aveva fatto per la prima volta quasi quarantotto anni or sono. 
Come per quel suo lontano debutto oggi è arrivato, ha fatto il suo lavoro e, passato il tempo dovuto, è andato via, salutando la ventina di nipoti ideali che se lo sono trovato davanti e hanno assistito in tal modo a ciò che per lui è stato l'evento cui Apollonio consacra questo frustolo.
Lo fa, si badi bene, per dire come per il suo alter ego si sia trattato di un addio a un mirabile arcano. Ancora oggi, trentuno maggio 2023, l'ormai prossimo settantunenne, nella sua condizione di minoranza, si è sentito infatti quasi coetaneo della maggioranza presente in aula, composta di ventenni. 
Come s'è narrato, era stata la medesima cosa la prima volta e allora con buona ragione. Ma così non ha mai smesso di essere nelle centinaia e centinaia di volte comparabili, per quasi cinque decenni e, lo si comprenderà, sempre più miracolosamente. 
Fino a oggi, trentuno maggio 2023. Perché oggi l'incantamento che prese l'alter ego di Apollonio l'undici dicembre 1975 di botto è svanito. E con esso i suoi venti anni.

6 maggio 2023

Sommessi commenti sull'Ultra-Moderno (4): Guardoni ed esibizionisti

Nel Moderno, il numero degli esibizionisti era ancora minore, molto minore di quello dei guardoni: a chi capitava di esibirsi, non mancavano certamente i guardoni e poteva trarne un gusto che, dandosi casi diversi, poteva essere ripugnante o una ripugnanza che poteva essere gustosa. 
L'Ultra-Moderno è tale anche perché ha rovesciato il rapporto in questione: per quanto i guardoni possono essere aumentati di numero e certamente lo sono, il numero degli esibizionisti è cresciuto oltre ogni limite, anche per via del crollo del pudore, tra le antiche virtù ormai la meno praticata. 
Nella temperie ultra-moderna, per un solo guardone, fosse anche uno di quelli che a coltivare la propria inclinazione mettono il massimo impegno, ormai ci sono frotte di esibizionisti. Costoro sono perciò sovente frustrati e insoddisfatti: "Mi esibisco, ma per chi, se nessuno mi guarda?"
Frustrati a tal punto, gli esibizionisti, da essere singolarmente ridotti, con bizzarro corto circuito, a fare i guardoni di se stessi, per un universale trionfo di un ancora più perverso narcisismo.
 
[Il generale maschile di questo frustolo è naturalmente solo convenzionale e, malgrado oggi si parli tanto di corpo, l'esibizionismo cui ci si riferisce, come d'altra parte il correlato voyeurismo, non ha la materia corporale come oggetto necessario e forse nemmeno come principale.]