27 dicembre 2007

Bolle d'alea (5): Stevenson

"There is no duty we so much underrate as the duty of being happy. By being happy, we sow anonymous benefits upon the world, which remain unknown even to ourselves, or when they are disclosed, surprise nobody so much as the benefactor".

Una lampante verità, cui Robert L. Stevenson prestò nel 1877 la sua parola. Infinite volte essa sarà passata e passerà per la testa delle infinite marionette - paradossali sintesi di replica e singolarità - che la vita ha messo, mette e metterà in scena nella condizione umana. Passata fugacemente e dispersa, come un dono inafferrabile.
Tra una fine e un principio arbitrari, a chi ha continuato a leggere le sue parole Apollonio fa l'augurio di trattenere tale verità nella sua coscienza almeno per un anno, godendo così dell'incosciente generosità che regala la felicità: per sorprendere, per sorprendersi.

["Non esiste dovere così sottovalutato come quello d'esser felici. Quando siamo felici, disseminiamo il mondo di benefici anonimi, che restano ignoti persino a noi stessi o, se svelati, non sorprendono nessuno quanto lo stesso benefattore"].

19 dicembre 2007

"A perpetuale infamia..." (Convivio I, xi)

Alla lingua della sua espressione e al suo lettore ideale - per incoraggiarlo e per incoraggiarsi - Apollonio dedica, come viatico per i tempi a venire, un passo del Convivio dantesco (un blog del tempo che fu?).
Quel che tale passo dice è attuale quanto lo era quando fu concepito: prova storica, e dunque paradossale, dell'acronia del genio, come di quella della stupidità, del resto, e della lotta del primo per sopravvivere alla seconda.
Nel tempo effimero che cagiona l'esplosione sociale degli indirizzi d'augurio, questa lettura valga ad ancorarsi - individualmente e con chi e con ciò che si ama: l'espressione italiana, per esempio - alla consapevolezza dell'eterno farsi del tempo.


«1. A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. 2. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità. E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta che pochi sono quelli che siano da esse liberi. 3. De la prima si può così ragionare. Sì come la parte sensitiva de l’anima ha suoi occhi, con li quali apprende la differenza de le cose in quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha suo occhio, con lo quale apprende la differenza de le cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questa è la discrezione. 4. E sì come colui che è cieco de li occhi sensibili va sempre secondo che li altri giudicando lo male e lo bene, così colui che è cieco del lume della discrezione sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso; onde qualunque ora lo guidatore è cieco, conviene che esso e quello, anche cieco, ch’a lui s’appoggia, vegnano a mal fine. Però è scritto che "’l cieco al cieco farà guida, e così cadranno ambedue ne la fossa". 5. Questa grida è stata lungamente contro a nostro volgare, per le ragioni che di sotto si ragioneranno, appresso di questa. E li ciechi sopra notati, che sono quasi infiniti, con la mano in su la spalla a questi mentitori, sono caduti ne la fossa de la falsa oppinione, de la quale uscire non sanno. 6. De l’abito di questa luce discretiva massimamente le populari persone sono orbate; però che, occupate dal principio de la loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano sì l’animo loro a quello per forza de la necessitate, che ad altro non intendono. 7. E però che l’abito di vertude, sì morale come intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che per usanza s’acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna arte e a discernere l’altre cose non curano, impossibile è a loro discrezione avere. 8. Per che incontra che molte volte gridano Viva la loro morte, e Muoia la loro vita, pur che alcuno cominci; e quest’è pericolosissimo difetto ne la loro cechitade. Onde Boezio giudica la populare gloria vana, perché la vede sanza discrezione. 9. Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. 10. E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro, non ostante che ’l pastore, piangendo e gridando, con le braccia e col petto dinanzi a esse si parava. 11. La seconda setta contra nostro volgare si fa per una maliziata scusa. Molti sono che amano più d’essere tenuti maestri che d’essere, e per fuggir lo contrario, cioè di non esser tenuti, sempre danno colpa a la materia de l’arte apparecchiata, o vero a lo strumento; sì come lo mal fabbro biasima lo ferro appresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonare al ferro e alla cetera, e levarla a sé. 12. Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l’uomo li tegna dicitori; e per scusarsi dal non dire o dal dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio, e commendano l’altro lo quale non è loro richesto di fabbricare. 13. E chi vuole vedere come questo ferro è da biasimare, guardi che opere ne fanno li buoni artefici, e conoscerà la malizia di costoro che, biasimando lui, si credono scusare. 14. Contra questi cotali grida Tullio nel principio d’un suo libro, che si chiama Libro di Fine de’ Beni, però che al suo tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca, per simiglianti cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza. 15. La terza setta contra nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto. 16. La quarta si fa da uno argomento d’invidia. Sì come è detto di sopra, la invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra li uomini d’una lingua è la paritade del volgare; e perché l’uno quella non sa usare come l’altro, nasce invidia. 17. Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che dice di non saper dire, ma biasima quello che è materia de la sua opera, per torre, dispregiando l’opera da quella parte, a lui che dice onore e fama; sì come colui che biasimasse lo ferro d’una spada, non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l’opera del maestro. 18. La quinta e ultima setta si muove da viltà d’animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è. 19. E perché magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa, per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, avviene che ’l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori. 20. E però che con quella misura che l’uomo misura sé medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di sé medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l’altrui men buone: lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l’altrui assai. 21. Onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio volgare, e l’altrui pregiano: e tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; a lo cui condutto vanno li ciechi de li quali ne la prima cagione feci menzione.»

18 dicembre 2007

En quête de... (1)

La syntaxe n’est qu’une opération de composition qui crée en même temps un système (c.-à-d. un ensemble ordonné d’interdépendances) et ses parties. Ni l’un ni les autres n’existent préalablement. Dans le processus de composition, c’est le rapport mutuel qui leur donne des valeurs, selon la suggestion théorique pionnière de Ferdinand de Saussure.
Pour se faire jour, les études syntaxiques (et la linguistique toute entière) doivent se libérer de toute ontologie. Le monde étudié par le linguiste est un univers vide, peuplé des fantômes qui manifestent le processus créateur de purs rapports systématiques. Le travail d’un chercheur sage, avisé et conscient (comme le fut Edward Sapir) ne consiste que dans la découverte et dans la détermination des rapports (manifestés et, en même temps, cachés par ces fantômes). En fonction d’une telle prise de conscience, le siècle qui nous sépare de Saussure n’a pas vu changer beaucoup la situation.
À quelques exceptions près (parmi lesquelles pourrait peut-être figurer le pseudo-Harris des Notes du cours de syntaxe, c.-à-d. le cilice par lequel Maurice Gross mortifia une émersion de son ego spéculatif et théorique), les syntacticiens se sont contentés et se contentent de renouveler, sous des formes toujours variées (les chemins de l’errance sont justement infinis), les façons de procéder d’une tradition philologique ontologiquement fondée.
La terminologie courante en est la meilleure preuve. Et, même dans les cadres qui se prétendent les plus innovateurs, les catégories par lesquelles on opère le démontrent clairement. En tant que taxinomie indiscutée qui fonde l’état d’entités des objets de toute recherche, des notions comme article, nom, verbe, adjectif etc. (qu’elles soient « dopées » ou non par l’adjonction des qualifications supplémentaires tirées du mécanicisme post-bloomfieldien) définissent les choses auxquelles on aurait affaire en syntaxe. Et de ce fait la syntaxe reste un jeu aveugle et un peu idiot, surtout écrasé sous le poids d’un lexique (mieux, d’une idée naïve et toute faite du lexique) considéré comme le dépôt d’où des unités irréductibles de sens et de forme (qu’elles soient appelées racines, morphèmes, mots ne change pas la substance) sortent presque toutes faites (et comment se font-elles ?). De ces unités, la syntaxe ne serait finalement qu’une simple disposition, un modeste arrangement.
La notion de prédicat, mieux, de prédicativité peut jouer un rôle important dans l’établissement d’un cadre approprié à la naissance d’une véritable syntaxe scientifique, une fois passée au crible de l’arbitraire saussurien (qui concerne la terminologie de la linguistique au même titre que toute autre expression linguistique : ce que l’on oublie presque toujours), une fois nettoyée en conséquence du fardeau de ses emplois logico-grammaticaux et une fois connectée à l’idée d’une fonction d’opérateur de composition (un renvoi aux Notes pseudo-harrisiennes est à ce propos approprié). Ce travail préalable est nécessaire mais il n’est pas suffisant, car le danger d’une considération positive et non différentielle reste. Il faut donc passer à une évaluation relationnelle et oppositive (en s’inspirant de Roman Jakobson): à une idée de prédicativité comme négation de sa valeur négative et non-marquée. Et dans cette opposition, le terme non-marqué ne coïncide pas avec la fonction corrélée d’argument, qui est elle aussi l’un des deux termes d’une opposition comparable.
Cela fait, catégories et catégorisation sont finalement subordonnées aux notions relationnelles et on passe ainsi d’une question traditionnelle (« quelles sont les catégories linguistiques qui ont vocation à être prédicatives ? » : à vrai dire, toutes et aucune) à la tentative de comprendre et de classer les formes par lesquelles se manifestent les rapports et les différences entre les valeurs fonctionnellement diverses de predicativité.

23 novembre 2007

Unde exoriar?

Il 26 novembre 1857 nacque a Ginevra Ferdinand de Saussure. Tra tre giorni, centocinquanta anni esatti:



"Unde exoriar? - C'est la question peu prétentieuse, et même terriblement positive et modeste que l'on peut se poser avant d'essayer par aucun point d'aborder la substance glissante de la langue. Si ce que je veux en dire est vrai, il n'y a pas un seul point qui soit l'évident point de départ".


(Écrits de linguistique générale, texte établi et édité par Simon Bouquet et Rudolf Engler, Gallimard, Paris 2002, p. 281)
Il TLS commemora Saussure (con un articolo di John E. Joseph)

26 ottobre 2007

Intolleranze (1): Svariato

Apollonio lo dichiara subito: con svariato non è obiettivo. Aggettivo o participio che sia, lo trova intollerabile. Sentimenti diversi gli suscita il verbo svariare, con quella sua aria da flâneur che svariato proprio non ha e, del resto, non ha mai avuto.
Non che la varietà non piaccia ad Apollonio: anzi. Varietas delectat è uno dei suoi motti preferiti (e lo ripete fino a diventare noioso, anche a se medesimo). Ma svariato no: proprio non lo tollera.
È convinto del resto che esso porti dentro la paurosa tabe dell'uniformità, che sia intrinsecamente falso e menzognero, che sia insomma la maschera che tenta malamente di nascondere e quindi rivela il peggiore piattume.
Lo si consideri già nella forma. Lo si compari al serio e modesto vario, di cui svariato è infine solo una variante andata a male, avariata. Un inutile –ato che da un lato millanta un’inesistente perfettività, dall’altro, con una sillaba in più, banalizza la forma.
Con svariato si prende così l’onesto vario e lo si fa convergere, incolpevole, verso gli “uto, ito, ato” che conchiudevano gli sgangherati resoconti da Palazzo Chigi del parodistico giornalista inventato e impersonato da Mario Marenco, anni fa, per Alto gradimento (Apollonio non ne ricorda il nome: tra chi lo legge, qualcuno ne ha memoria?)
Né funzione meglio appropriata garantisce la s–. Non si capisce cosa ci stia a fare, se non a determinare l’enfasi, il turgore fonico del nesso consonantico iniziale.
Ne viene fuori una parolaccia, che comincia gonfiandosi e termina qualunque.
Sì, qualunque. Ed è così che svariato finisce giustamente per fare la figura miserabile dell’aggettivo indefinito che, vergognandosi d’essere tale, si dà arie da aggettivo qualificativo.
Se svariato qualifica qualcosa, però, è solo l’afasica verbosità di chi lo adopera.

Non hai nulla da dire? Di’ “svariate cose”, costi quel che costi.
E se le dici, avrai certamente “svariate ragioni”. Si può stare sicuri, però, del fatto che, invocandole tutte, quelle ragioni, non ne saprai indicare precisamente nessuna (perché del resto nessuna è precisa nella tua mente). Nella migliore delle ipotesi, stai facendo il furbo.
E quello svariato, come tutte le parole inutili che prosperano sulla bocca d’ogni stupido, uno scopo ce l’ha. È una minaccia e un attentato alla grazia della vita e della lingua: “Guai a chi me ne chiede conto. Dico svariate cose, e insensate, perché così ho voluto. Ito. Ato”.

Lingua loro (6): "Pausa pranzo con lunch"

Ottobre 2007. Meeting annuale di un’associazione italiana di studiosi di lingue e linguaggio, la più pedante. Apollonio, con l’improbabile nom de plume della sua vita accademica, ne fa peraltro parte da trenta anni. Conseguenza: qui si narra una favola che narra del suo narratore. “Well, nobody’s perfect” e, come dice Heinrich Wiesner, "Humor hat seine Wurzeln im Schmerz".
Ed allora, excerpta dal "programma esteso [?] delle tre giornate di convegno", come lo si legge in rete:
GIOVEDÌ 25 OTTOBRE

16.45 - Coffee Break

VENERDÌ 26 OTTOBRE

13.00 - Pausa pranzo con lunch


Un anno fa, circa. Annuncio pubblicitario televisivo di una nota marca di caffè. Sul ponte di coperta di una nave da crociera, il Comico. Piomba d'improvviso la Spalla. Ha l’aria e i modi dell’attempato giovanotto che incarna le tendenze (incarnare le tendenze è attitudine che non tramonta mai).
Con l’accento dell’italiano che fa l’anglofono, si rivolge al Comico: “Hallo, boy… ci facciamo un lunch, un brunch, un coffee break?”.
Il Comico, a bocca aperta e lievemente sconcertato: “Ma che stai a di’?”.
La Spalla: “È l’idioma…”.
E il Comico: “Aaaah, è l’idioma… eh, se ne incontrano de idiomi ne la vita…”

Ovvio, a pensarci. Come direbbe George Clooney, what else a un convegno di linguistica?
“Lingue, ethnos e popolazioni”: un’autentica evidence che sarebbe piaciuta a Ferdinand de Saussure. E a Ettore Petrolini.

Ecco il collegamento con YouTube, per chi volesse
rivedere la gag, con il suo contorno pubblicitario.
Ed ecco il collegamento con il
Ultimissime, da uno dei nostri inviati al meeting: pare che (il) lunch sia stato cassato (almeno dalla versione a stampa del programma). Resipiscenza o taglio ai fondi?

15 settembre 2007

Poor John ran away

"The form Poor John ran away contains five morphemes: poor, John, ran, a- (a bound form recurring, for instance, in aground, ashore, aloft, around), and way. However, the structure of complex forms is by no means as simple as this, we could not understand the forms of a language if we merely reduced all the complex forms to their ultimate constituents. Any English-speaking person who concerns himself with this matter, is sure to tell us that the immediate constituents of Poor John ran away are the two forms poor John and ran away; that each of these is, in turn, a complex form, that the immediate constituents of ran away are ran, a morpheme, and away, a complex form, whose constituents are the morphemes a- and way; and that the constituents of poor John are the morphemes poor and John. Only in this way will a proper analysis (that is, one which takes account of the meanings) lead to the ultimately constituent morphemes". Nel cuore del suo trattato del 1933 (Language, p. 161), Leonard Bloomfield fissa con pochi tratti le idee e le procedure che, immutate, hanno dominato la ricerca linguistica per tutto il secolo scorso e continuano ancora oggi a imperversare, senza che più nessuno se ne accorga, essendo divenute parte del senso comune dei linguisti. La rivoluzione chomskiana - peraltro limitata ad aspetti che, quanto all'autentica ricerca, erano e rimangono esteriori - è stata appunto una rivoluzione: il moto di un mobile intorno a queste parole, secondo un'orbita che la loro forza attrattiva destina, dopo un certo numero di passaggi e malgrado i continui rilanci, a un inevitabile collasso.
Per chi si fida delle ricostruzioni storico-epistemologiche ufficiali potrebbe tuttavia essere stupefacente osservare oggi, a più di settanta anni di distanza e dopo decenni di baruffe, che l'intuizione del parlante - quella chimera che, sotto ogni forma possibile, ha ingoiato il dato positivo della scienza come l'avevano immaginato i Neogrammatici, di cui Bloomfield fu il maggiore allievo e continuatore - giganteggia già nel recesso più profondo dell'analisi per costituenti immediati e ne costituisce il non chiarito fondamento: "Any English-speaking person who concerns himself with this matter, is sure to tell us that..." What?

31 agosto 2007

L'esotico quotidiano (col pretesto di Emile Benveniste)

"Ce qui caractérise en propre le verbe indo-européen – osservò Benveniste nel 1950: lo si può leggere alla pagina 169 dei suoi famosi Problèmes de linguistique générale – est qu’il ne porte référence qu’au sujet, non à l’objet. A la différence du verbe des langues caucasiennes ou amérindiennes par exemple, celui-ci n'inclut pas d’indice signalant le terme (ou l’objet) du procès". L’allievo prediletto del grande Antoine Meillet additava con tali parole un dato indiscutibile. Negli studi morfosintattici, quando è questione di una lingua indoeuropea, interrogarsi sulla funzione della flessione significa per larghissima parte determinare i modi con cui essa manifesta le proprietà sintattiche di quella funzione argomentale del costrutto designabile per convenzione come Soggetto finale. Tale manifestazione contribuisce del resto in modo decisivo (e spesso esclusivo) alla discriminazione superficiale di tipi di costrutti differenti: è solo per le proprietà formali della flessione che, in latino, Lesbia amat si oppone a Lesbia amatur.
All’indiscutibile osservazione non conseguì però né da parte dello studioso né da parte dei suoi epigoni o oppositori un’attitudine di ricerca consona alla portata di radicale chiarezza e semplicità esibita da tali parole. Essa è stata così dispersa nella mancata distinzione tra funzione (cioè rapporto, dipendenza) e senso che caratterizzò gran parte dell’opera scientifica di Benveniste, come caratterizza lo stato presente degli studi.
Se la si fosse presa sul serio e se ci si fosse impegnati nella sua agevole verifica, ci si sarebbe accorti da tempo (Apollonio ne fornisce prove dal 1984 e se ne diverte, nel privato come nel pubblico, sotto il nom de plume della sua vita scientifica) che essa è tanto ovvia quanto solo parzialmente vera e, di conseguenza, sostanzialmente falsa e ingannatrice, a meno di non considerare lingue non-indoeuropee proprio quel francese in cui Benveniste si esprimeva o l’italiano (e con esso un gran numero di varietà italoromanze).
In tali lingue, che potrebbero essere meno peregrine per la comune esperienza del linguista occidentale di quanto non lo siano le amerindie o le caucasiche, sotto le adeguate condizioni sperimentali di osservabilità, la flessione riserva infatti un «indice», cioè uno spazio formale di manifestazione, a una funzione argomentale diversa dal Soggetto (finale): a una funzione designabile convenzionalmente come Oggetto.
Nei primi due capitoli dei Promessi Sposi, per esempio, si legge: "Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure, per ricoverarsi a tempo in un convento…"; "rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti…"; "ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto…"; "secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie…"; "da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia…"; "poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa…"; "che avesse data a colui la più piccola occasione…"; "poteva colui aver concepita quell’infame passione…"; "avrebbe spinte le cose tanto in là…"; "e Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui!"
Volendosi concedere le emozioni d’un viaggio tra i monti del Caucaso o in una riserva indiana, con buona pace dell’anima riverita del grande indoeuropeista, il lettore potrà peraltro dilettarsi a intercettare nel parlato di tutti i giorni che lo circonda (dalla chiacchiera privata alla discussione di lavoro e al gossip televisivo) tutti i casi in cui il participio di una forma verbale composta si flette in funzione delle proprietà dell’Oggetto che lo accompagna, precedendolo come seguendolo.
E potrà riflettere sul caso bizzarro delle pagine dedicate all'accordo del participio passato della noiosa grammatica dei suoi anni di scuola. Senza che egli lo sapesse, esse lo introducevano ai modi con cui la sua lingua s'ammanterebbe d'esotismo.
Insomma: ciò che è diverso rispetto a radicate convinzioni e pregiudizi è sempre lì sotto gli occhi di tutti. Forse per questa ragione pone alla saggezza (non solo alla linguistica) i problemi più interessanti. A non accorgersene però sono talvolta proprio i più celebrati specialisti.

1 agosto 2007

Il potere linguistico della stupidità

Non sono mai mancate, nella storia della cultura occidentale, analisi anche molto acute e profonde e rappresentazioni sarcastiche e verisimili della stupidità linguistica del potere. Più rare – e se è così una ragione ci sarà – sono sempre state quelle del potere linguistico della stupidità. Il potere è infatti di norma, in un modo o nell’altro, manifesto e si presta così a essere facilmente identificato attraverso le sue forme comunicative (in cui peraltro si riduce la sua volontà espressiva, con tipico collasso). La stupidità e soprattutto il suo potere sono al contrario camuffati e, al tempo stesso, enormemente diffusi: irriconoscibili a se stessi (uno stupido che sapesse di esserlo smetterebbe ipso facto di esserlo – almeno compiutamente), sono per ciò stesso difficilmente catturabili dai tradizionali strumenti di analisi storica e socioculturale, dal momento che spesso tali strumenti ne sono solo un cascame pedante. La stupidità esercita così (e senza parere) il potere più persistente e assoluto, soprattutto attraverso e sulla lingua. A smascherare, almeno parzialmente, il potere linguistico della stupidità può essere solo uno sguardo stupido privo di potere. La saggezza immaginata da Ferdinand de Saussure pare possederlo e si candida quindi a essere il (sempre precario) strumento euristico dell’eterna battaglia, eternamente perduta, contro il potere linguistico della stupidità.

20 maggio 2007

Il buono e il cattivo tempo

"Un vero filosofo non deve mai perdere di vista la lingua, vero barometro le cui variazioni indicano con certezza il buono e il cattivo tempo". A scriverlo è Joseph de Maistre, per i quale "i nomi non sono affatto arbitrari, come hanno affermato tanti uomini i quali avevano perduto i loro nomi... la loro origine deriva, come quella di tutte le cose, direttamente o indirettamente da Dio, perciò non bisogna credere che l'uomo abbia il diritto illimitato di dare nomi anche a quelle cose di cui con qualche diritto può considerarsi autore, e di imporvi nomi secondo l'idea che se ne forma. Dio si è riservata a questo proposito una specie di giurisdizione che è impensabile disconoscere". Per la linguistica, il riconoscimento d'essere alfine una teologia ma, ove il cielo fosse vuoto, un autentico pasticcio (o la più impegnativa delle sfide). Il più gustoso e grottesco paradosso sta però nel corto circuito che parole come queste scatenano se messe in contatto con quelle di alcuni degli attuali detrattori del relativismo, sedicenti illuministi per la pretesa di mettere la loro boriosa pseudo-scienza, cioè in fin dei conti se medesimi, al posto dell'impotente dio vendicatore sognato dal pensatore savoiardo. Non solo quindi illuministi immaginari o, meglio, en travesti ma autentici reazionari forcaioli in servizio permanente ed effettivo.

30 aprile 2007

Libri in aeroporto

Modesto ma costante frequentatore di aeroporti, Apollonio deve alla sua naturale disposizione all’ansia la grazia di godere così, di tanto in tanto, del tempo sospeso dell’attesa, che anticipa e lascia già pregustare, quando si siano passati i controlli, il tempo librato (e quasi perciò liberato) del volo.
Le attese, quando sono quiete, hanno non pochi meriti. Il principale è forse il fatto che esse si lasciano benevolmente e amorevolmente ingannare: sono per questo compagne perfette di un uomo.
Gli inganni che tende Apollonio alle sue attese sono tutti innocenti e comuni: lèggere le pagine leggère che lo accompagnano, prendere note dei propri pensieri su un consunto calepino, sbirciare vetrine, osservare (a dimessa caccia del bello, del bizzarro, del sublime quotidiani) la gente che gli sta o gli corre intorno.
Egli usa, poi, come tanti, infilarsi tra gli scaffali di quei bazar – tipicamente aeroportuali – che, tra altre inutili mercanzie, vendono libri. Appoggiato a una colonna, gli capita così di scorrere i volumi che (l’esposizione in quei luoghi lo dice) dànno sostanza alle classifiche delle migliori vendite. Sulla stampa, queste hanno per lui sempre l’aria misteriosa delle liste di cose favolose e sconosciute, quasi bestiari medievali di animali fantastici che, lì, nelle librerie degli aeroporti, finalmente, gli si rendono visibili e palpabili. Non sempre deliziose, tali letture sono sempre edificanti ed è talvolta successo che, volo dopo volo, Apollonio abbia così percorso per intero – evitandone con tale disonesto mezzo l’acquisto – opere che vanno per la maggiore per qualche mese (chissà se quel mese sarà un anticipo di eternità). E Discolo come egli è, si ripromette, un giorno o l’altro, anche di scriverne: controcanto alla serietà della cultura delle biblioteche, una sommessa rivendicazione della saporita vanità della cultura aeroportuale.

16 aprile 2007

"Il Gattopardo": di chi le spese?

Le vicende editoriali del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa sono note: l'autore morì a Roma il 23 luglio del 1957, senza sapere se esso sarebbe mai stato pubblicato. Undici anni dopo, il figlio adottivo dello scrittore, Gioacchino Lanza, dà notizia sulla "Fiera letteraria" dell'esistenza di un appunto di Lampedusa, scritto pochi giorni prima della sua morte, indirizzato alla moglie e a lui. Vi si parla del Gattopardo e della sua eventuale pubblicazione postuma in questi termini: "Gradirei che il romanzo fosse pubblicato, ma non a mie spese". Le biografie dî Lampedusa riprendono la storia, frattanto divenuta uno dei cliché lampedusiani, tenendosi più o meno strettamente all'originale resoconto del figlio.
"In the last days he wrote letters for Licy and Gioacchino to read after his death. Among other things he wrote to his adopted son: «I would be pleased if the novel were published, but not at my expense». In death Lampedusa retained his innate pride. He knew The Leopard deserved publication but he would not countenance the humiliation of having to pay for it": è David Gilmour che scrive (The Last Leopard, Collins Harvill, London 1990, 158), con un rinvio in nota all'articolo sulla "Fiera letteraria".
A sua volta, Andrea Vitello: "La consapevolezza della propria fine divenne così lucida che negli ultimi giorni egli arrivò a fare qualche raccomandazione. Lasciò due lettere: una per la consorte, l'altra per Gio'. In particolare, raccomandò di seguitare ad interessarsi del Gattopardo, tentando presso altri editori; precisò che la redazione da pubblicare doveva includere i due capitoli stesi per ultimi; sconsigliò tuttavia di pubblicare a proprie spese: lo riteneva umiliante" (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sellerio, Palermo 1987, p. 319).
Dodici anni fa, compare il Meridiano dedicato a Lampedusa, con un'introduzione di Gioacchino Lanza. Quasi in explicit, vi si legge: “E durante la malattia redasse due lettere per me e per la moglie. Sulle sue volontà e sui suoi affetti non dovevano esserci equivoci. Fra l'altro vi parlava del Gattopardo. Pregava gli eredi di adoperarsi per la sua pubblicazione, ma non desiderava la mortificazione che lo facessero a proprie spese” (“Introduzione”, in Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Opere, Mondadori, Milano 1995, p. L-LI).
La lingua è bizzarra, indomabile e capricciosa. Nel momento stesso in cui evoca nella parola del padre adottivo la volontà di non lasciare spazio agli equivoci, la parola del figlio ne istituisce uno, nel nocciolo profondo del suo tema. Attribuito a “spese”, l’aggettivo “proprie” ha un difetto che (capita spesso ai difetti) equivale a una virtù: un’ambiguità di riferimento. “Proprie” di chi? Del morituro o degli eredi? Non è questione di poco momento (à suivre).

21 marzo 2007

Nevica

Oggi, per convenzione cronologica, primo giorno di primavera, comincio le mie lezioni del Semestre estivo. E ha nevicato. E quando ha smesso, il cielo è rimasto, ancora per qualche ora, autunnale. Cosa c'è di più trito del parlare del tempo, non solo del meteorologico? La banalità dell'osservazione non dovrebbe tuttavia nascondere, non tanto al linguista quanto a chiunque provi a esprimersi con un briciolo di consapevolezza, che l'ironia è iscritta nel farsi stesso dell'attività espressiva e che se una parola non pare ironica a chi l'ascolta (anche solo per il fatto di averla egli stesso proferita) è perché essa lo sta ironicamente giocando.

16 marzo 2007

Scolaro, somaro...

L'esperienza è comune: come odori e sapori, ci sono espressioni che improvvisamente piombano chi le sente nel pozzo dei ricordi. Espressioni e parole hanno del resto odore e sapore: non c'è quasi bisogno di dirlo. Alcune puzzano di rinchiuso o di marcio, in altre si percepisce lo zolfo o il cloroformio, altre ancora olezzano fiorite. E poi ce ne sono di amare, di dolci, di sapide, di insipide, di succulente, di stucchevoli e di stomachevoli.
Scolaro, per me, ha odore e sapore e mi sbalza indietro nel tempo a più di trenta anni fa, e nello spazio, a Pisa, Istituto di Glottologia, Via Santa Maria 36. Vi sbarcavo con un modestissimo bagaglio alla fine del 1975, convinto (prova appunto di quella modestia) che scolaro ero stato un dì, con altri mocciosi siciliani, in più di un paesotto dell'Agrigentino, ma che, doppiata la boa della quinta classe elementare, fossi divenuto definitivamente studente: ricordo i miei farmelo presente, con l'aria severa di chi rammenta a un pivello l'onere di un ambito ruolo sociale. Studente, appunto, in attesa che il futuro mi dicesse cosa sarei divenuto per sorte e capacità.
Ebbene, anni dopo, giunto studente a Pisa da Palermo, per fuggire l'ombra lunga e minacciosa di una congrega accademica, "E lei, di chi è scolaro?" fu la prima domanda che mi si fece. E la risposta, credo, decise di me (ma ciò esula dalla presente storia).
Scolaro di..., capii subito, era ben diverso da scolaro in assoluto (ciò che in giorni ancora non molto lontani ero stato): e non era detto fosse meglio. Anche perché, quando ero appunto in assoluto scolaro in quei paesotti siciliani, popolosi come assolati campi di grano ma stretti come gole montane, più di una volta, apparendo sconosciuto in un contesto umano, m'ero sentito apostrofare con un "E tu, a cu apparteni?", affettuoso o diffidente, variante, certo, meno elegante della domanda pisana ma più sincera.
Col suo talvolta implicito complemento, di cui studi successivi e una maggiore intelligenza dei fatti m'avrebbero chiarito la funzione grammaticale di soggetto, scolaro era parola-chiave del contesto umano in cui m'ero volenterosamente ficcato. Per capirlo bastava del resto frequentare tale contesto anche occasionalmente. Per qualche anno io lo feci invece regolarmente: cocciuto, mai assente ai seminari.
E se una scommessa del genere fosse possibile, scommetterei volentieri e sicuro di vincere sul fatto che, per molti decenni, la parola scolaro sia stata proferita in quelle stanze decine di volte al giorno.
Ricordo il palese godimento con cui le figure che vi svettavano ne preparavano l'apparizione nei loro discorsi, il gusto che trovavano nel pronunciarla, lo sciogliersi della parola nella loro bocca: una, la più importante, quella da cui scolaro eruttava senza posa, si atteggiava spesso a un bizzarro musino, che io trovai sempre enigmatico.
E in quelle bocche scolaro si scioglieva in miele, se il riferimento era a se medesimi o ai propri, o in fiele, nel caso degli altri, di norma spregiati. Occasioni in cui, affiancata e connessa a scolaro, compariva abitualmente, accompagnata variabilmente da sorrisi o da accenti di sdegno, un'altra parola-emblema: somaro.
E così tra lo scolaro che, superata l'infanzia, mai più divenni e il somaro che ero e son rimasto (anche solo per il fatto di aver appunto sopportato, cocciuto e paziente, non lievi some) , trascorsi i miei anni pisani di studio.
Oggi, vedendo ancora comparire in scritti ideati in riva all'Arno la parola scolaro, la lusinga della memoria mi illude di intendere e di assaporare meglio, per quel suo rimare con somaro e grazie alle misteriose e nascoste virtù esplicative delle forme, anche l'aspetto onomastico di vicende connesse e successive che m'è accaduto di vivere.

14 marzo 2007

Coppie non minime: scienza e politica (accademica)

"Fort heureusement, les conférences scientifiques et politiques n'ont rien de commun. Le succès d'une convention politique dépend de l'accord de la majorité ou de la totalité de ses participants. En revanche, le recours au vote et au veto est étranger aux débats scientifiques, où le désaccord se revèle en général plus productif que l'accord. Le désaccord dévoile des antinomies et des tensions à l'intérieur du champ étudié; il est le prétexte à des nouvelles explorations". A parlare è Roman Jakobson, quel folletto che, nel secolo scorso, a partire da una prospettiva autenticamente linguistica, ha scorrazzato con una genialità fulminante e imprevedibile quasi per ogni contrada delle cosiddette scienze umane, lasciando ovunque segni del suo passaggio. Segni, spesso, da simpatico lestofante, ma anche per tale ragione sempre meritevoli di riflessione. Le parole in esordio, citate secondo l'ormai classica traduzione francese comparsa negli Essais de linguistique générale, aprivano i suoi Closing statements a un congresso tenutosi or sono ormai quasi cinquanta anni. Sono insomma le parole d'esordio del suo celebre saggio su linguistica e poetica, che anni fa non poteva mancare di aver letto (e talvolta meditato, con fatica) quasi ogni aspirante studioso di problemi linguistici. Mi sono nuovamente cadute sotto gli occhi qualche mese fa: quel saggio fa parte delle letture che consiglio a chi mi avvicina professionalmente e, di conseguenza, capita a ogni semestre di discuterne in classe, in un modo o nell'altro. E hanno preso per me un fresco e nuovo valore: le precedenti letture erano state evidentemente tutte poco attente a quell'incipit e attratte invece dal grumo di complessità che, dopo una sistemazione dello scibile comunicativo di apparente chiarezza cartesiana (tecnica non rara negli scritti di Jakobson, incorreggibile seduttore), lo scritto riserva al lettore troppo fiducioso di sé. E' vero: vi ho sentito - e, mi dico adesso, facilmente - echeggiare i modi ai quali, cento anni prima, John Stuart Mill aveva affidato la sua lode della libertà, con l'impagabile ingenuità predicatoria di chi sa di avere inoppugnabilmente ragione. Ma a fare risuonare nelle mie orecchie in modo nuovo e diverso quelle espressioni è stata - spesso accade così - solo una modesta esperienza personale (l'essermi ancora imbattuto in un veto), su cui, proprio in quanto personale, non vale appunto la pena di diffondersi. Basterà dire che, se il criterio del grande linguista russo è cartina di tornasole, nella linguistica d'oggi, molti eventi spacciati per scientifici (e ciascuno trovi i suoi esempi: a me non ne mancano) sono in realtà meramente politici (e d'una politica accademica, peraltro, di infimo rango).

18 febbraio 2007

Lingua loro (5): Ogni limite ha la sua pazienza

"Grandi idee da Prouvé"
"Metrò, la fermata è firmata"
"Fior di franchi per «fior di loto»"
"Baronzio, che Calvario!"
"Un Piccio in grandezza"
"L'enigma del Tempio"
"Cento anni di scoutitudine"

Titoli di pezzi del Domenicale del "Sole 24 Ore" di oggi. Non tutti i titoli, ma tutti titoli e tutti oggi.

6 febbraio 2007

"E pur si muove"


Davantage que ceux d’autres novateurs, les mots-clés saussuriens, observés au grand jour d’une histoire désormais presque séculaire, ont un aspect bizarre et paradoxal. Sporadiquement bien compris, ils ont de temps en temps libéré la discipline de certaines des ses entraves ancestrales. Régulièrement mal compris, comme le note déjà Engler (Remarques sur Saussure, son système et sa terminologie, CFS 23, 1966), ils ont fini par revitaliser ces entraves, en le devenant eux-mêmes par contagion. «Synchronie», «diachronie», «langue», «parole» etc. sont des cas exemplaires de ces vicissitudes. Aucune surprise, d’ailleurs : la linguistique est une discipline for the happy few (autrefois bien davantage qu’aujourd’hui, évidemment). À l’instar de Malraux, on sait bien toutefois quel genre de majorité se cache toujours dans toute minorité éclairée. Et la communauté scientifique des linguistes n’a jamais échappé à cette règle.
Parmi les mots saussuriens, «système» a un relief spécial, du fait qu’il est le premier qui apparaît dans son œuvre. Mémoire sur le système primitif des voyelles dans les langues indo-européennes est le titre marquant son début et la position de «système» n’aurait pas pu y être plus forte, ce qui fait exclure l’hypothèse d’un hasard. Au contraire, on n’exagère pas en affirmant que «système» est le premier mot articulé par le (très jeune) savant genevois, la première et, à vrai dire, la dernière fois qu’il ouvra sciemment la bouche, et que, donc, sa parole et son enseignement commencent et finissent par là. Et que par là commence et finit donc sa fortune, dans ce qu'elle a eu d'heureux ou de malheureux.
Situation hors de l’ordinaire, que de confier sa destinée à un mot et dont Saussure était assez conscient, pour en fournir sans détour une justification : «Étudier les formes multiples sous lesquelles se manifeste ce qu’on appelle l’a indo-européen, tel est l’objet immédiat de cet opuscule : le reste des voyelles ne sera pris en considération qu’autant que les phénomènes relatifs à l’a ne fourniront l’occasion. Mais, si arrivés au bout du champ aussi circonscrit, le tableau du vocalisme indo-européen s’est modifié peu à peu sous nos yeux et que nous le voyons se grouper tout entier autour de l’a, prendre vis-à-vis de lui une attitude nouvelle, il est clair qu’en fait c’est le système des voyelles dans son ensemble qui sera entré dans le rayon de notre observation et dont le nom doit être inscrit à la première page» (Mémoire sur le système primitif des voyelles dans les langues indo-européennes. Dans: Recueil des publications scientifiques de Ferdinand de Saussure, Genève : Sonor 1922, p. 3).
Et si l’on considère ce passage en profondeur, on s’aperçoit que sa concision dicte à jamais et à part entière le programme théorique et la démarche méthodologique de la science du langage. On s’aperçoit surtout que, loin d’être statique et de désigner ontologiquement un nouvel objet supposé du monde linguistique (comme, par exemple, l’ «indo-européen», les «lois phonétiques», «l’analogie», les «sonantes», le «phonème», les «prototypes», la «structure syntagmatique» etc.), la notion de «système» vient qualifier dans son dynamisme une façon d’appréhender le processus continuel qui, d’après Wilhelm von Humboldt, est en même temps le ‘se-faire’ du langage et le ‘se-faire’ de la perspective scientifique rationnelle qui le concerne. Et il s’agit là du seul isomorphisme fonctionnel compatible avec l’attitude strictement expérimentale que le jeune Saussure destinait à sa discipline à venir, à laquelle pourtant dans la pure conscience et avec la spectaculaire prévoyance de sa pleine maturité il n’assignait pas un futur certain : «Faut-il dire notre pensée intime? Il est à craindre que la vue exacte de ce qu’est la langue ne conduise à douter de l’avenir de la linguistique. Il y a disproportion, pour cette science, entre la somme d’opérations nécessaires pour saisir rationnellement l’objet, et l’importance de l’objet…» (Écrits de linguistique générale, S. Bouquet et R. Engler (éds). Paris : Gallimard, p. 87).
Dans l’esprit de Saussure, la notion de «système» naissait donc en fonction d’une recherche que l’on ne pouvait et ne pourrait pas qualifier de diachronique ni de synchronique sans la défigurer. Toutefois, par réaction avec les dégénérescences ontologiques de «synchronie» et de «diachronie», malencontreusement très populaires, elle s’est rapidement métamorphosée en fétiche. De cette dérive, Roman Jakobson et les autres auteurs des «Thèses» pragoises eurent une conscience critique précoce et la précoce subtilité de comprendre que leur polémique ne visait pas Ferdinand de Saussure mais «l’école de Genève», dont Saussure n’a manifestement jamais fait partie : considération banale qui vaut aussi et généralement (on ne devrait jamais l’oublier) pour la linguistique, justement, post-saussurienne et pour ses fastes.
«Système» dans sa valeur fonctionnelle, non-ontologique, ultra-holistique et sous sa dimension dynamique est donc le noyau générateur d’une linguistique expérimentale à faire redémarrer.