9 agosto 2009

Lingua loro (15): "osservatore volontario"

Per decreto ufficiale, osservatore volontario sarà chi farà parte di quelle ronde di cittadini istituite come risposta all'esigenza (pare diffusa) di contrastare il visibile degrado cui stanno andando incontro le città italiane.
Racchiusa in tale designazione, c'è per chi vuole osservarla una ricca rappresentazione della società che parla la lingua che oggi accoglie l'espressione.
C'è, palese e moderna, l'osservazione e, celata ed eterna, l'osservanza.
C'è la volontà esibizionista della milizia, che - soprattutto come velleità - è tra le maggiori attitudini socio-psicologiche della nazione. E c'è l'ipocrisia eufemistica del nomen agentis, con cui (senza nominarlo, ché sarebbe scandalo) s'allude al ruolo poliziesco.
C'è la ridondanza semantica: nomen omen, l'istituto medesimo è ridondante in un paese che ha un numero imprecisato di polizie diverse. E c'è l'ambiguità sintattica: osservatore volontario non è infatti chi osserva volontariamente (opposto a chi lo fa involontariamente) ma chi, come volontario, copre la nuova funzione di osservatore.
E con la spudorata creazione di un voyeur istituzionale, c'è insomma nel nome la rivelazione, evocata per eccesso di contrasto, della nuova fase acuta di un morbo antico: la cecità, che ormai dilaga, di chi pretende di guardare senza saper vedere, parallela del resto alla perenne volgarità di chi pretende di scrivere senza saper leggere (nemmeno ciò che scrive).

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