26 ottobre 2010

Vuotare il mare dell'espressione

A un'ora e in una luce incerta, sul treno verso un aeroporto. A giro di sguardo, siamo in cinque nella carrozza, tre uomini, due donne. Nessuno giovane, nessuno vecchio. Fradici: fuori piove a dirotto e arrivare in stazione non è stato facile. Accanto al proprio piccolo bagaglio d'ordinanza, ciascuno sta chiuso nel suo cappotto e nei suoi pensieri, che, si vede e quasi si sente, non devono essere lieti. Pensieri che sono ovviamente lingua. Interiore. Ma, per il linguista e per la sua presunta esperienza euristica, cos'avrebbe di meno dell'esteriore l'interiore che ininterrotta fluisce nella carrozza di questo treno come, in questo momento e da tempo immemorabile, ovunque nel mondo ci sia o ci sia stato un essere umano?
Che americanata l'idea (ma tale la si può definire? O fola e imbroglio?) di un'astratta infinitezza, se confrontata col mare reale dell'umana espressione: concreto, finito (come potrebbe essere altrimenti? Umano, s'è detto). E pure, a immaginare di afferrarlo in un pensiero, interminato.
Che insensato e infantile programma ha da millenni chi dice di occuparsi della lingua, se pretende neppure soltanto di capire tale mare ma addirittura di spiegarlo. Se si illude, per far ciò, di riuscire a vuotarlo coi paiolini bucati di un'arcigna dottrina filologica e di un risibile armamentario grammaticale.

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