21 ottobre 2011

La zavorra dell'italiano

Per le scienze italiane, che rischiano di affondare nell'oceano tempestoso delle valutazioni e delle verifiche bibliometriche, l'italiano è una zavorra. Dopo il caso delle scienze esatte e naturali, si apprende da voci autorevoli, ciò vale adesso anche per le morali. Per riuscire a galleggiare come possono, prima lo buttano a mare, l'italiano, e meglio è. 
Resta un modesto problema. Gettata via l'espressione italiana, di una cultura (o di una civiltà), di cui le scienze (non solo le morali) sono forse una non piccola parte, come si farà a dire che è cultura (o civiltà) italiana? 
Lo si dirà forse a partire dall'indirizzo di casa o d'ufficio dei suoi praticanti. O dal loro luogo di nascita. Meglio ancora: dal fatto che, andando a far spese al mercato, chiedono al pizzicagnolo un etto di lonza e che, a sera, gettandosi in poltrona, si lasciano inebetire dai dibattiti dei talk show: in italiano.
Certo, il teatro musicale è arte e, a differenza della scienza, l'arte, lo si sa, è roba poco seria e da perdigiorno. Non c'è del resto espressione più universale della musica. Ci si chieda, però: senza l'italiano ci sarebbe un teatro musicale italiano? Ci sarebbe una delle maggiori glorie nazionali divenute mondiali?
Che, senza una sua propria espressione, una cultura (o una civiltà) non esiste (più) è una di quelle banalità che sarebbe difficile immaginare di dover rammentare a scienziati morali. Eppure pare si debba. Chiamati al capezzale di un malato, quando consigliano di abbandonare l'italiano, costoro svelano di non essere medici e d'essere invece becchini. Da buoni becchini, dichiarano il caso disperato e propongono di risolverlo nel modo più spiccio: seppellendo l'ammalato, tra le chiacchiere dal pizzicagnolo e quelle da talk show. 
Seguendo il facile andazzo, quasi tutti si finge del resto di ignorare che, anche fuori d'Italia e dell'italiano, la vera questione in ballo nelle attuali scienze globali (soprattutto nelle morali) non è la lingua ma la scarsa qualità dei loro praticanti e quella pessima dei loro dozzinali prodotti. Si finge di ignorare poi che le sole cose autenticamente globali sono le sciocchezze. In qualunque lingua siano espresse, infatti, esse restano tali. Meno locale è la loro espressione, però, maggiori sono i guasti che esse producono: irresponsabilmente. E ciò spiega alla perfezione, almeno nelle scienze morali, gli indici altissimi di cui godono nelle valutazioni fondate su criteri bibliometrici. Ineluttabili e incontestabili, ritiene Apollonio, come i rilevamenti sull'ascolto dei talk show, sul numero di visite ai blog e sulle vendite globali delle bevande gassate.

2 commenti:

  1. Genera terrore anche solo l'ipotesi che l'italiano possa essere "fondatamente" considerato "zavorra" nel dire (id est, scrivere) scientifico (ma la distinzione fra scienze esatte o della natura e scienze morali o umane, ha oggi valore maggiore di quello dell'artificio per la moltiplicazione di senati accademici e connessi uffici, con relativi stipendi e prebende?). Così, al cospetto di questo post, mi rifugio, 'io' tremante non più in grado di decentrarsi dietro il fantoccio grammaticale della così detta forma impersonale, nella (mia) creazione fantasmatica dell'autorevolezza irreversibile di Alessandro Figà Talamanca, rappresentante fra i più degni del "paradigma di tutte le scienze", la matematica, il quale nel 2000, partecipando ad un seminario nazionale sui sistemi informativi delle "aree disciplinari", seppelliva fuer ewig, come direbbe Apollonio, ogni ipotesi di rilevanza della bibliometrica, a partire dallo strumento più diffuso. L'intervento del matematico è reperibile, per chi non lo conosca già, al seguente link: http://siba2.unile.it/sinm/4sinm/interventi/fig-talam.htm
    Forse vale la pena riportarne infra l'incipit, scusandomi per l'abuso dell'ospitalità d'Apollonio.

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  2. Diceva dunque Alessandro Figà Talamanca,a mò d'enunciato del suo teorema subito dopo dimostrato:
    "... l'uso dell’IF per la valutazione della ricerca scientifica individuale o collettiva, ad esempio, di dipartimenti o gruppi di ricercatori, o Paesi interi, ha costi altissimi in termini di danni che può recare al sistema scientifico e pochissimi, incerti, benefici."
    Se è così, l'uso o meno dell'italiano nella comunicazione scientifica ha rilievo solo rispetto alle strategie di carriera (come dire, assicurarsi una retribuzione non troppo inadeguata al pregio dell'opera scientifica) dei ricercatori. Nulla di riprovevole, anzi, un'attività dovuta: la lonza che nutre, ad esempio, l'autore di "Greco antico e francese, vedico e italiano: valori di forme predicative" ha lo stesso peso effettuale della dodicesima facette de linguistique rationelle, dev'essere di primissima qualità. Così, ogni consiglio di abbandono dell'italiano per "implementare la visibilità" dei ricercatori italiani, come rileva Apollonio, si situerebbe nel campo delle sciocchezze autenticamente globali, d'ampiezza estrema oggi, indubbiamente. Ma non meno certo è che le scienze, italiane o non italiane, ne restano fuori.

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