27 aprile 2014

Linguistica da strapazzo (28): Persona, tempo, genere. Grazie al Cielo, tutti grammaticali.


Felice inciampo del linguista da strapazzo nella videoregistrazione da cui è tratto il brano qui esposto: reperto esemplare e occasione utile per gettare uno sguardo intuitivo sulla plasticità di funzioni tenute invece come rigide categorie dall'ideologia grammaticale (e dai suoi succedanei culturali della più varia natura, nella vita sociale). 
In poche decine di secondi per effetto di montaggio, presentandosi e dicendo di sé, l'intervistata si atteggia discorsivamente sotto tre persone grammaticali, con quattro commutazioni: seconda, prima, terza, di nuovo seconda. Reagisce alla sollecitazione di parlare di sé con un esordio in seconda persona: "Sei sempre una ricercatrice". Un 'io' in apertura sarebbe stato del resto meno fine. Certo più chiaro, però, ed è così che, immediatamente, come a palesare, per chiosa esplicativa, che quel 'tu' non vale in funzione dell'enunciazione né cade nell'indeterminatezza del cosiddetto tu generico, la seconda persona è commutata nella prima: "io, prima di tutto, sono un medico...". Per opportuna coerenza grammaticale, compare così la terza: "che ha fatto della ricerca il proprio punto fondamentale ma ha lo scopo di curare i pazienti e di formare gli studenti". E infine, quando si tratta di diffondersi concisamente in una spiegazione e di narrare, torna la seconda dell'esordio, che si qualifica così come la persona che caratterizza la trama del testo: "Quello resta sempre. Questo è quello che tu sei. Dopo di che la vita ti porta a... se tu hai questo passo... questo questo... questa... passo che ti permette di vedere i problemi non rapportati a te stesso ma rapportati alla società automaticamente ti viene da essere un punto di riferimento per una serie di persone quindi cominci a coordinare". Tutto in perfetta scioltezza e piena naturalezza. Nessuna soluzione di continuità, nessuno stridere di ingranaggi, nessuna frattura discorsiva. 'Tu', 'io', 'lui' (sì, 'lui'), 'tu': tutte faccette appropriate a variare le prospettive d'un discorso brevissimo in cui l'enunciatrice parla, come le è richiesto, solo di sé e in funzione del quale sarebbe stata dunque autorizzata, nella rigida visione categoriale, a dire esclusivamente ioPersona, del resto, valeva 'maschera', come si sa. 
Come persona grammaticale, è 'tu', lo si è visto, a reggere invece la trama del testo. Un 'io' che l'enunciato atteggia a 'tu' si desoggettivizza. Sulle orme di Benveniste, se la terza è la non-persona e la prima è la persona soggettiva, la seconda è la non-soggettiva. La narrazione di un'esperienza in cui l''io' si maschera, peraltro in modo riconoscibile, da 'tu' desoggettivizza tale esperienza. Narrativamente, essa cessa di valere solo da accadimento eventuale, da accidente d'una vita individuale soggettivamente prospettata. Se il caso si dà, può proiettarsi, come un exemplum medioevale, nell'empireo delle necessità che trascendono l''io' enunciatore, il suo tempo, il suo luogo. 
Ne segue una qualche autonomia dell'enunciato narrativo dalle coordinate della sua enunciazione: il suo presente, per es., può agevolmente non essere il presente dell'enunciazione: "...la vita ti porta... tu hai... ti permette... ti viene... cominci". Non è l'adesso, è la regola in cui, non contraddittoriamente, le circostanze narrate si inscrivono: ciò che accade sempre, nel non-tempo di un universo ideale e, come si osservava, già letterario, abitato e 'agito' da un personaggio, il 'tu' in cui si prospetta l''io', che fattosi narrativamente 'tu' ha già collocato il suo discorso sotto il segno della funzione poetica, nella prospettiva metonimica, si dirà con Jakobson.
Infatti, per sospensione di incredulità o per delega di esperimento, il 'tu' dell'enunciazione (nel caso specifico, chi ascolta e vede) può immaginare come condivisa (o condivisibile) l'esperienza. Può concedersi a tale gioco senza perdere consapevolezza che, come per un trucco cinematografico, è un effetto speciale della lingua a prospettare l'esperienza di cui è questione come l'esperienza di un 'tu' che non è lui o lei. 
Dire di sé mascherandosi da 'tu' comporta, nell'orizzonte di attese dell''io', un destinatario che, prestandosi al gioco, silente annuisca, fosse anche solo per (sottilmente estorta) buona educazione. Una reazione, in termini dialogici, come: "Io? Ma che dici?" sarebbe non collaborativa e da guastafeste e significherebbe rifiutare polemicamente l'invito, implicito in quel 'tu' in cui occhieggia l''io', a un'agnizione, alla scoperta partecipativa di un rapporto di fratellanza (o di sorellanza), a un'adesione simpatetica. Del resto, per attitudini confidenziali (autentiche o simulate, poco importa), si narra di sé indossando la maschera del 'tu' coi 'tu' che si sentono prossimi, ai quali si vuol fare sentire (anche ingannevolmente) che li si considera prossimi, dei quali si sollecita la simpatia se non la solidarietà.
Intorno al quarantesimo secondo della videoregistrazione, ove fosse sfuggita, massima attenzione merita invece la combinazione della voce che dice "a te stesso" mentre il gesto deittico dell'enunciatrice è rivolto a se stessa, dice quindi 'a me stessa'. In astratto contraddittorie, le due espressioni non lo sono per chi parla e, con naturalezza, compie il gesto né per chi vede il gesto e ascolta le parole. Tanto dal punto di vista della produzione, quanto da quello dell'interpretazione, esse sono calcolate compositivamente e integrate in un sistema atto a gestire in maniera flessibile (ma per nulla indeterminata: anzi, determinata fino al dettaglio) la differenza tra funzioni e forme, differenza segnicamente pertinente nelle parole come nel gesto.
Se, dicendo di sé, la voce si esprime in una seconda persona che veste la prima, mentre (per dire così) il gesto deittico lo fa direttamente in prima, è tuttavia difficile immaginare che l'inverso possa prodursi con una perspicuità discorsiva comparabile. La plasticità della parola o, se si vuole, l'essere essa disposta meglio del gesto alla menzogna potrebbe avere avuto un ruolo filogenetico non trascurabile nell'assicurare appunto alla parola fortune espressive indubbiamente maggiori di quelle del gesto. 
Nell'espressione umana (anche la verbale), si badi bene, il gesto è tutt'altro che accessorio ma tradisce, come si osserva da sempre con semplicità. Intrinsecamente corporale, esso è difficilmente scorporabile dalla soggettività di chi enuncia. 
La parola, radicalmente funzionale, elemento di giunzione che dà valore al corporale e allo spirituale, è invece atta a creare universi non contraddittori, pacificamente espressi e interpretati, in cui, per esempio e in modo perfettamente banale, un 'io' femminile, sollecitato a parlare di sé, della sua esperienza e del suo successo proprio in quanto femminile, costruisce, per finzione enunciativo-narrativa, una trama di autoriferimenti alla seconda persona e a uno di essi, il più saliente, anche perché sottolineato da un gesto parlante, dà la forma, altrettanto se non più parlante, di un "a te stesso": una forma non-marcata, quanto al genere. O forse (e qui l'ambiguità dell'italiano non concede di dirimere) maschile. 

[Protagonista, volontaria, della videoregistrazione e, involontaria, di questo frustolo è una donna di scuola e di scienza, come lei medesima dichiara in apertura. Per tali ragioni, Apollonio è certo che non le dispiacerà di avere prestato a queste modeste riflessioni sull'espressione la sua degna attitudine nella circostanza e le sue appropriate parole: l'una e le altre preziose, peraltro, perché spontanee e non orientate alla bisogna, come accade invece in quegli esperimenti di laboratorio che le saranno familiari. A lei, se mai le giungesse notizia di questa bagattella, la gratitudine di Apollonio.]

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