18 luglio 2015

Illusioni italiane (2)

Chissà donde viene l'idea che a mettere in pericolo l'italiano sarebbero una manciata di "errori", che talvolta prefigurano soltanto il futuro di qualche suo dettaglio grammaticale, e drappelli di forestierismi effimeri o pronti ad acclimatarsi.
Chissà cosa nutre l'illusione che, messa un'improbabile mordacchia agli "sgrammaticati", l'italiano resterà ciò che è diventato per una breve stagione della sua vicenda moderna. Capiti quel che capiti e ci si limiti a compitarlo, con congiuntivi corretti e disgiunzioni nella norma, nei tinelli, davanti alle bancarelle del mercato, nelle telecronache sportive e nei dibattiti televisivi. Oltre che, in qualche variante locale, nelle tradizionali canzonette da intonare tra i tavoli dei ristoranti, per ottenere un obolo dai turisti. 
Chissà cosa alimenta il sogno che l'italiano resti ciò che è diventato in qualche secolo di storia, con fatica e, certamente, non per merito della Crusca (di quella storica, intende naturalmente Apollonio), ma per via delle officine, delle botteghe, delle banche, dei teatri, dei laboratori, dei conservatori, dei cantieri, dei porti, delle scuole, persino delle università e dei politecnici e di ogni altro luogo in cui l'ingegno si è manifestato in italiano. Di ogni altro luogo in cui - felice formula trovata da un sodale di Apollonio -  si è "pensato in italiano".
L'italiano è diventato ciò che è diventato, si badi bene, senza che nessun programma nazionale, tanto meno un'autorità politica nazionale, lo abbia mai voluto tale. Quindi solo perché, come varietà compatibili, in un sistema di concetti e di forme a esso riconducibile hanno pensato (e, talvolta, scritto e parlato) esseri umani di qualità.
Di conseguenza, o vivo e buono, perché, senza troppo badare ad andazzi e autorità, lo fa tale chi si impegna ad esprimersi, correlando significati e significanti all'altezza, o semplicemente l'italiano, anche quello con i congiuntivi corretti e le disgiunzioni nella norma, non c'è, ancora prima d'essere perduto. E di ciò che non c'è perché non merita di esistere, è sciocco sentire la mancanza ed è infantile proclamare il bisogno.

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